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Riti funebri: nuovi scenari, sapienza antica.

«Seppellire i morti» e «consolare gli afflitti» appartiene al dna del cristianesimo: sottrarsi a questo compito sarebbe come disincarnare la fede vissuta nella carità. La Chiesa è forte di una tradizione secolare che si esprime in parole di senso, gesti di prossimità, riti di speranza che non sono statici, ma camminano nel mutare dei tempi e delle culture. Oggi viviamo in una società sempre più multiculturale, nella quale non c’è da stupirsi se compaiono nuove pratiche funerarie. Il riferimento alla multiculturalità come ad un tratto distintivo della società contemporanea fa pensare in prima battuta alle diverse culture che convivono con la cultura italiana, che relativamente ai riti funerari si ritiene ancora innervata della cultura cristiana. In realtà, le sfide che la Chiesa si trova ad affrontare sono quelle di un rapido mutamento interno della cultura riguardo al pensare, al sentire e al vivere l’esperienza della morte. I segni di tali mutamenti possono essere così sintetizzati: nuovi luoghi, nuove pratiche, nuovi simboli, nuove figure di mediatori.

Nuovi scenari

Nuovi luoghi si affacciano sulla scena dei riti funebri: i crematori sempre più attivi; le case funerarie – luoghi nei quali poter custodire, visitare il defunto e i suoi familiari – che aumentano di numero (sono otto quelle attualmente presenti nel territorio diocesano); la casa-cimitero, là dove i parenti decidono di custodire le urne dei cari defunti nelle loro abitazioni private. L’aumento della pratica crematoria porta con sé nuovi riti da celebrare, quali l’ultimo saluto nella sala del commiato, la consegna dell’urna e la deposizione nel cimitero, il momento della dispersione delle ceneri in natura, piuttosto che l’accoglienza a casa delle ceneri del defunto. Non è raro che i parenti chiedano impropriamente una benedizione e una preghiera anche in questi ultimi due casi, che sono espressamente vietati dalla Chiesa, nonostante per motivi di carità cristiana non si neghi le esequie a chi compie questa scelta, se non è fatta per motivi contrari alla fede.

La necessità di ospitare questi nuovi riti fa sì che sorgano nuovi simboli più o meno laici per accompagnare i diversi momenti e luoghi. Pensiamo ad esempio alla clessidra posta al cimitero monumentale di Torino, nel luogo della dispersione delle ceneri all’interno del cimitero: simbolo antropologico del tempo che passa, ma pure segno massonico. Nuove figure di mediatori si affiancano a quelle più tradizionali della Chiesa: gli impresari delle agenzie funebri gestiscono in prima persona tutte le incombenze, tra cui quella del servizio religioso, là dove i familiari non sono interessati ad entrare in contatto diretto con la comunità cristiana. Al cerimoniere laico nelle sale del commiato si affiancano nuove figure di accompagnamento religioso, come nel caso delle case funerarie che organizzano al loro interno rosari e benedizioni alla chiusura della bara, prima di andare in chiesa o direttamente al cimitero. Si tratta di ministri ordinati e laici non inviati dalla comunità, ma invitati (e rimborsati) direttamente dalle agenzie funebri.

Quando la morte si fa social

L’ultimo scenario in ordine di apparizione, inquietante per le vecchie generazioni, naturale per i «nativi digitali», è quello della morte social. In uno studio del 2018 intitolato «La morte si fa social», lo studioso Davide Sisto cerca di interpretare la situazione paradossale di morti che continuano ad esistere nell’ineliminabile presenza della loro passata vita on line. I social network e i siti web non solo costituiscono il più grande cimitero del mondo, ma anche il luogo non più fantascientifico nel quale continuare a vivere e comunicare con i propri cari al di là della morte. Nella realtà creata dal web, «chi muore si rivede»: il profilo Facebook che consultiamo più volte al giorno diventa una vera e propria lapide virtuale, e i nostri amici potranno continuare a farci gli auguri ogni anno nell’aldilà. Se la morte fa parte della vita e la vita è divenuta digitale, allora è inevitabile che la morte con i suoi riti sia divenuta anch’essa digitale, combinando il pubblico con il privato, l’individuale con il collettivo, l’on line con l’on life. Mentre discutiamo circa l’opportunità di mettere sopra la bara una fotografia con l’immagine del defunto, sui social l’oblio e la cancellazione è quasi impossibile, con possibilità inedite di commemorazione e rischi patologici di malinconia e di mancata elaborazione del lutto.

Conseguenze e sfide per la Chiesa

La conseguenza più evidente dei nuovi scenari sopra delineati è quello di una inevitabile perdita del monopolio ecclesiale nella gestione dei riti funebri. Là dove si sfaldano le tre tradizionali tappe attorno ai luoghi simbolici della casa, della chiesa e del cimitero, il ‘sistema’ cattolico dell’accompagnamento rituale al morire è certamente depotenziato, ovviamente non dappertutto e non allo stesso modo. In questo accorciarsi o trasformarsi delle tappe di accompagnamento, si pone la sfida pastorale per la Chiesa di «esserci», non tanto e non solo per non perdere il monopolio (per «occupare spazi», direbbe papa Francesco), ma soprattutto per esprimere e realizzare il senso profondo dell’accompagnamento rituale, che è quello di «generare processi», cioè di attraversare nella comunione il tempo liminale del distacco, nell’equilibrio tra la necessaria prossimità e la giusta distanza. In alcuni casi è il Rituale stesso delle Esequie che prevede momenti rituali di preghiera cristiana nei luoghi e nelle circostanze della cremazione: nulla vieta che, anziché il rituale secolare delle sale del commiato, si possa celebrare un momento cristiano di preghiera. La difficoltà, in questo caso, è quella di essere presenti con persone preparate per accompagnare momenti delicati come quelli dell’ultimo distacco (al tempio crematorio, così come sulla tomba).

Quando le agenzie funebri organizzano la preghiera

In altri casi, possono giungere alla Chiesa richieste che pongono qualche difficoltà. Tale è, ad esempio, la richiesta di momenti di preghiera (rosario, benedizione della salma, addirittura funerale) nelle case funerarie, nei quali il collegamento con la comunità cristiana è completamente scartato. In che modo rispondere a tali richieste? Il confronto con le chiese che da più tempo si sono trovate ad affrontare questa situazione (Canada, Germania, Francia, ad esempio) non è risolutivo, dal momento che si tratta di situazioni molto differenti rispetto alle nostre. Ad esempio, dove molte chiese della campagna francese sono chiuse, la casa funeraria può rappresentare il luogo più agevole per il rito cristiano del funerale o per una semplice benedizione: per questo motivo, le diocesi francesi raramente offrono indicazioni dettagliate su come comportarsi a livello pastorale e rituale.

Nella situazione del nostro territorio diocesano, si tratta di distinguere in modo adeguato tra i diversi luoghi e i diversi riti, mediando tra la buona volontà di non lasciare soli e di non lasciare il vuoto nei diversi tempi e luoghi dell’accompagnamento (il cimitero, la casa del commiato, la casa funeraria) e l’esigenza di custodire la natura ecclesiale di tale accompagnamento. In pratica la Chiesa dice «no» ai funerali celebrati nelle case funerarie, ricordando ai sacerdoti diocesani e religiosi che il Codice di diritto canonico non prevede la possibilità di celebrare i funerali in un altro luogo che non sia una chiesa. Per quel che riguarda la possibilità di pregare con il rosario nelle case funerarie, nessuno può impedire di pregare accanto alla salma del proprio defunto. Spetterà alla comunità cristiana, d’accordo con i familiari, proporre una preghiera di qualità ecclesiale e spirituale più alta, in virtù del contesto comunitario della propria chiesa e del contesto liturgico di parole e gesti all’altezza della veglia funebre cristiana. Quanto alla benedizione alla chiusura della bara, il Rituale non prevede la presenza obbligatoria del ministro ordinato: secondo la disponibilità, un ministro incaricato per guidare la preghiera può accompagnare questo momento particolarmente delicato.

Equipe di accompagnamento

La prospettiva pastorale dell’accompagnamento, come si può intuire, è seriamente provocata a istituire e formare équipe in grado di accompagnare e nel caso guidare i diversi momenti rituali. In questione non è tanto la supplenza dei ministri ordinati, ma la partecipazione dell’intera comunità (o di alcuni a nome di tutti) al ministero dell’accompagnamento e della consolazione. L’offerta sempre più ampia di servizi personalizzati da parte delle agenzie funerarie, insieme alla nuova socializzazione della morte offerta dai social, provoca la Chiesa a offrire un servizio ricco di misericordia, umanità e spiritualità. È una sfida che le nostre comunità stanno accogliendo con serietà e senso di responsabilità. All’impegno di chi accoglie e accompagna, deve ovviamente corrispondere la fiducia di chi si avvicina alla Chiesa per celebrare le esequie di una persona cara: le regole che la Chiesa dà a proposito di canti, interventi, gesti e posture, non vogliono soffocare le emozioni di nessuno, ma semplicemente comporle e orientarle, perché nell’ora della morte si possa annunciare una Vita che non muore, ma si trasforma.

fonte: vocetempo.it

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