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Dentro le stanze dell’addio.

Non un monumento, ma un attraversamento. Non la celebrazione di una perdita, ma il percorso che ha condotto al distacco, con tutte le speranze, le rabbie, le remissioni, i precipizi, il limbo indefinito e nebuloso, quando sai ma ancora ti aggrappi, quando i medici parlano e tacciono, quando cominci quell’ultimo tratto che precede un addio. Quando tua moglie è un petalo e a farla volar via basta un soffio. Yari Selvetella, giornalista e scrittore, ha definito così, come un movimento “dentro”, “verso” qualcosa, l’accompagnamento nella malattia e poi la morte della sua giovane compagna, scomparsa a Roma nel 2013. Oggi, a cinque anni di distanza, quando al lutto è stato dato un posto nella vita che va avanti, Selvetella guida il lettore nel suo congedo da Giovanna, attraverso “Le stanze dell’addio”: la casa della famiglia, con le sue tracce di intimità domestica, una vacanza che lascia sulla pelle di quella giovane donna i primi segni della fine, poi il reparto con il suo odore di disinfettante, il carrello del vitto e i tanti libri ancora da esplorare, la rianimazione senza finestre, il labirinto bianco dell’ospedale, e, alla fine, il crematorio, l’acqua che trascina via il contenuto di un’urna di ceneri dietro l’altra, mischia le esistenze di sconosciuti, in uno scorrere e in un disperdersi che, nella loro igienica crudeltà, tracciano una riga tra il prima e il dopo.

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