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Esegesi del necrologio.

Il necrologio è sfortunatamente un genere letterario. Lo si capisce quando chi scompare è qualcuno che conosciamo bene. Se si sono vissute molte cose insieme a una persona, il fatto che non ci sia più rende spesso difficile fare i conti con la sua vita. A prescindere dalla commozione (che è un sentimento nobilissimo, ma molto soggettivo, spesso piangiamo il noi stessi che la persona si è portata via) e dal rispetto (che è dovuto a coloro che transitano, ma che dopo un po’ diventa qualcosa di diverso, riserbo, dimenticanza o mistero), ogni necrologio è ingiusto. Proprio perché si permette di fare i conti con la vita di qualcuno come se “si fosse risolta”. Se c’è qualcosa di propriamente umano è la non conclusione, vorrei dire la “sconclusionatezza”. Se amiamo qualcuno la cosa è ancora più forte. La vita di qualcuno che abbiamo amato è sempre fuori da ogni conclusione, proprio perché l’interruzione lascia dei filamenti che vanno molto oltre il punto e a capo. Nel caso dei necrologi di personaggi illustri, cioè di quelli che i giornali chiamano “coccodrilli”, c’è una forma di retorica che soffoca ogni commozione. Colui o colei sono “entrate” nel novero degli “obituary” proprio perché di loro è facile “dire bene”, basta rifarsi alle loro opere, a ciò che essi nel campo scientifico o letterario avrebbero lasciato ai posteri. Perfino il Foscolo ci credeva poco e nei Sepolcri sapeva già che la vera sostanza di cui sono fatti è spesso proprio retorica e ipocrisia.

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