Il fresco XXI secolo è già delineato da conflitti e migrazioni di popoli. Il pretesto religioso, appiglio di vecchia data abusato per infervorare i popoli, funziona ancora, miccia che fa esplodere l’odio, il conflitto, l’ode all’annientamento e al genocidio: le fosse comuni del califfato venute alla luce ne sono una triste testimonianza. Sono ancora vive le coscienze delle stragi risalenti al secolo scorso e turchi, curdi, sciiti e sunniti sono nuovamente alle prese con secolari cavilli da regolare tra le sabbie zeppe di oro nero. Bassezze dell’uomo, ingordigia del potere, cicli dei cicli della storia.
Sono molti gli stermini consumati nel nome di un qualche dio, molti dimenticati. Il più immane della storia è sicuramente quello dei nativi d’America. 100 milioni di esseri umani cancellati dalle loro terre a partire da quel 1492, anno in cui quelle terre divennero terreno di conquista per i migranti europei in cerca di fortuna e nel nome abusato di Dio adoperato come clava spirituale per convertire selvaggi a un altro vivere: civile, puritano, cristiano ed eletto. Va da sé che i nativi americani stavano benissimo anche senza i nuovi arrivi, che i loro idoli legati alla madre terra erano altrettanto validi e la storia ci racconta oggi che il loro errore fu quello di essere ospitali con i primi arrivati. Alla metà del XIX secolo, nel Nord America già buona parte dei nativi erano stati sterminati con ogni genere di crudeltà e le tribù rimaste erano state trasferite dai loro territori con umilianti trattati e ignobili marce forzate per essere disperse in ”riserve” sparpagliate negli Stati Uniti. Rimanevano “liberi” circa 300.000 nativi che abitavano le praterie tra il fiume Mississippi e le Montagne Rocciose, popolate da immense mandrie di bisonti. Gli indiani cacciavano il bisonte ricavandone quanto occorreva per mangiare, per ripararsi dalle intemperie, per costruire armi e per l’impareggiabile arte nella lavorazione degli oggetti di cuoio. Non dedicavano alla caccia più del tempo dovuto né uccidevano più animali di quanti servissero a soddisfare le esigenze della tribù.
Questo territorio era l’ultimo ostacolo per l’invasione bianca nella sua travolgente conquista del West e come è andata a finire lo sappiamo bene adesso, perché prima i vincitori fecero propaganda di se stessi attraverso la nuova arte del cinema, inventando il western, nuovo genere che esaltava l’eroismo dei conquistatori e mortificava la cultura dei pellerossa. Pellicole “capolavori” nel bene e nel male, palcoscenico per mostri sacri di Hollywood e per l’inimitabile regia di John Ford. Oggi è il grande schermo che ha restituito dignitosa verità storica e antropologica allo sterminio dei nativi americani partendo da opere coraggiose come “Il piccolo grande uomo” del 1970, fino a più chiare ricostruzioni. Impedibile è “L’ultimo pellerossa” del 2007, tratto da “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee”, romanzo di Dee Brown, autore di sangue indiano.
La storia di un genocidio che non si poteva più tacere lentamente si riscrive consegnandoci una sanguinaria avanzata da parte di uomini senza scrupoli. Coloni, avventurieri, speculatori che invasero l’America, sospinti dal mito della frontiera e dal luccichio dell’oro con il benestare di prelati, uomini politici e banchieri consenzienti. Simbolo del sanguinario epilogo la ferrovia che nel 1869 unì la costa atlantica e quella del Pacifico, facendo degli Stati Uniti un unico paese che aveva spazzato dal contenente la frammentata, millenaria e fragile civiltà indiana, ricca di tradizioni e di sopraffine conoscenze perdute per sempre. Un insieme di etnie incapaci di opporsi alle subdole strategie e alla forza militare degli invasori. Le tribù più forti e combattive, guidate da leggendari capi, iniziarono con molto ritardo un trentennio d’improvvisata guerriglia che si concluse con la decimazione degli indiani, vinti non solo dalla superiorità delle armi, ma anche dalla infame strage pianificata dei bisonti (3.700.000 capi solo dal 1872 al 1874), prima disgregazione delle basi culturali e di sostentamento sulle quali si reggeva quella società.
Oggi i nativi americani contano 30.000 unità, sono ancora discriminati e confinati in aree marginali. È dunque da una cinquantina d’anni soltanto che la vera storia dello sterminio dei pellerossa sta lentamente trovando dignità, ma c’è ancora molto da fare. È solo una fetta di quanto le orde di europei applicarono ai popoli americani nel nome della civiltà. L’America è lunga e una prolungata fetta di territorio al sud degli Usa fino al circolo polare antartico aspetta un momento di celata verità su altri genocidi sepolti tra le foreste della dimenticanza. Questa è un po’ di storia spicciola per arrivare a un momento di riflessione su ciò che siamo, su ciò che sta accadendo adesso, su cosa guida la mano più tremenda e più assassina dell’uomo e su quello che sarà in futuro in questo mondo dalla coscienza sporca e sepolta in una immensa fossa comune di umane bestialità impunite. Orrori di grida prevaricazioni e sangue: olocausti consumati sempre nel nome di un Dio. Qualsiasi sia quello “vero”, non potrà esserne mai e poi mai minimamente fiero.
Carlo Mariano Sartoris