Dannunzianamente, si può fare della propria vita un’opera d’arte. Oppure si può praticare “l’arte del suicidio” per raggiungere la propria missione, da non confondere con un momento di misera disperazione. Per sacrificarsi lottando, come Jan Palach, per eternarsi amando, come Yukio Mishima, o per donarsi – secondo il senso attribuito da George Bernanos – a una fede, a un’idea, a una patria, come Dominique Venner. Nel mondo di oggi il suicidio incarna gran parte della narrazione della realtà, specie nell’accezione del martirio islamico. E subito, parlando di questo, corre alla mente una parola su tutte: kamikaze.