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“Ho fatto un documentario per comprendere il suicidio di mia sorella fotografa”.

Trentadue pillole (forse) ha ingerito Ruth Litoff per togliersi la vita. Si chiedeva su un bigliettino se più di due dozzine sarebbero state sufficienti a regalarle la libertà. Un addio spettacolare, messo in scena nel suo appartamento di New York come un’ultima, tragica, opera d’arte. Note e doni lasciati per ognuno dei suoi cari, il cibo per il gatto, poi una lettera: “Carissima sorella, non odiarmi, ti prego. Ora sono libera. So che tu sai“. Ma Hope, in realtà, non sa nulla. Lo confessa nei primi minuti di “32 Pills. My Sister’s suicide”, il documentario presentato in anteprima europea al Biografilm Festival di Bologna che apre uno squarcio sulla malattia mentale e il suo magnetismo, il potere di plasmare le vite di chi ci gravita attorno, rilasciando i suoi influssi anche a distanza di anni. La frase impressa sulla carta pesa per Hope come un giudizio, è il rimorso per un compito inadempiuto, è la conferma di non aver fatto abbastanza per evitare la morte di Ruth, che si è tolta la vita a 42 anni dopo aver combattuto strenuamente contro la malattia mentale.

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