Il 9 maggio 2020 i genitori di Jozsef Szaller, Vilmos e Ildikó, si trovavano a Domsod, un piccolo comune ungherese a circa un’ora di macchina dalla loro abitazione principale a Budapest. Erano andati a riaprire la loro casa in campagna e a riempire il frigorifero in vista dei giorni di quarantena che il figlio avrebbe trascorso lì, lontano da loro, al rientro dopo un lungo periodo in mare. Szaller, un ragazzo di 28 anni che lavorava per la statunitense Carnival Cruise Line, una tra le più grandi compagnie di crociere al mondo, era in servizio da gennaio e si trovava in quel momento a bordo della nave Breeze.
Al loro rientro a Budapest, Vilmos e Ildikó Szaller trovarono la polizia ad attenderli all’ingresso di casa. Un agente mise in contatto l’uomo con l’ambasciata ungherese negli Stati Uniti, che a sua volta gli girò un numero di telefono diretto per contattare la Carnival. Da una stanza in cui si trovavano riuniti alcuni rappresentanti dell’azienda insieme a un madre lingua ungherese, racconta Vilmos Szaller, “mi dissero che avevano trovato mio figlio morto sulla nave”, senza fornire tanti dettagli. “Cosa è successo?”, chiese. “Per la vostra sicurezza è meglio non parlarne”, fu la risposta più volte ripetuta dall’altro capo del telefono.
Jozsef Szaller è stato trovato morto nella sua cabina a bordo della Carnival Breeze, sabato 9 maggio 2020, due giorni dopo essere stato visto vivo l’ultima volta dai suoi colleghi. La sua storia presenta diversi tratti in comune con quelle di altri membri dell’equipaggio di navi da crociera – altri tre almeno, probabilmente cinque – morti per suicidio mentre si trovavano isolati in mare nei mesi più difficili della pandemia da coronavirus, tra aprile e giugno 2020.