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Le angosce di un uomo paralizzato ai tempi del Coronavirus.

Era il 1986 quando, nel fiore degli anni, a causa di un esigente incidente stradale mi sono trovato paralizzato per il resto della vita, fino ad oggi. Conobbi il reparto di rianimazione, intubato per oltre un mese, aggrappato alla vita con il respiro che inciampava sui denti. Sono sopravvissuto.
Nato quando ancora c’erano le tracce dei bombardamenti per le vie della mia città, sono cresciuto mentre russi & americani promettevano la fine del mondo. Non è stato così. Ho visto il susseguirsi delle guerre regionali, ho seguito le nubi tossiche delle centrali nucleari e mentre il genere umano triplicava i suoi miliardi di esemplari, pur seduto in carrozzina sono entrato in questo nuovo millennio ancor più esigente. Dunque ho visto l’alba del riscaldamento globale, il suo avanzare inesorabile e neppure lento. E mentre l’elettronica ha preso il posto della fisicità, io che rimpiango ogni gesto del mio corpo, ho visto la gente sedotta dalla realtà virtuale e dalla sua fatua immobilità.
Trent’anni e più di paralisi insegnano che il nascere e il vivere non sono mai pretesa d’immortalità. Grande lezione di uguaglianza, perché quando la sirena di un’ambulanza suona, non c’è alternativa al progetto del destino. Quel che è stata una vita rimane all’indietro, quel che resta è così, come stabilito. Ho imparato a vivere lento, a chiedere e a ringraziare, ho capito cosa vuol dire essere tutti uno soltanto. Ho imparato a modulare le mie voglie, e non è stato male. Se ho vissuto quasi bene fin qui, sovente gioendo, lavorando e facendo la mia parte nella sfera dell’appartenenza, è perché mi hanno aiutato in tanti.
Per professione attento alle cose del mondo, ho scritto spettacoli, libri e articoli sul nostro ingordo, inquinante stile di vita, persuaso che sarebbe stato il fronte di una battaglia epocale. Invece, adesso non so. Nell’arco di pochi giorni, il funzionamento del Mondo è stato messo in ginocchio da un microrganismo letale. È una lezione di umiltà che sta imponendo la propria legge con democratica pandemia, senza doni né sconti. Di colpo ci siamo scoperti fragili, incapaci, inadeguati, piccoli esseri umani di fronte a un futuro profondamente incerto.
Per chi ha vissuto a cavallo di due secoli, assistere all’alba del riscaldamento globale seduto in carrozzina, sembrava essere già abbastanza. Ora, un bacillo ci riporta a tempi perduti nel tempo e, forse, torneremo a utilizzare la zappa. Singolare tributo a questo pianeta vivente anche in piccole forme dannose. Non resta che battersi contro il batterio… Un’attività che avevamo scordato, arroganti, molli e viziati, litigiosi uomini bianchi.
Io sono messo male. Dipendo dalle mani degli altri per affrontare la quotidianità. Il sistema funzionava bene; mi consentiva un’autogestione con un progetto di vita indipendente. Ora non so quel che mi attende dietro all’orizzonte. Se mancheranno le mani ad occuparsi di me, in questo tempo di clausura e di sanità al collasso, morirò in fretta e molto malamente. Se il virus mi prenderà di mira, so di essere comunque spacciato. Sono un paziente a rischio, paralitico di una certa età.
Ed eccomi qua, non a fare giornalismo, ma sintesi, analisi e diagnosi di me, di noi, del mondo al tempo del Coronavirus. Cosa resterà del nostro apparato produttivo, economico e sociale quando questo vento ammorbato avrà cambiato aria? Sono certo che ad oggi non vi sono risposte. C’è chi dice che è una reazione del mondo naturale alle arroganze dell’umanità, c’è chi dice che è un esperimento sfuggito di mano, c’è chi dice che sono prove di flagello perché siamo in troppi e così non va. C’è chi non dice niente e ha il cervello sperduto nel vuoto… Pare che il virus non colpisca le bestie; un cane abbaia da lontano nel silenzio irreale della città. Si sperimenta un farmaco, chissà?
Attendiamo in casa, confusi, impauriti, allineati e pallidi servi piegati al volere di Sua Maestà Covid-19. Che Dio ce la mandi buona! Pensarlo non ha effetti collaterali così come una preghiera umile e devota di fronte al magnifico mistero del poter vivere, e poi non più. Vecchie abitudini perdute nel tempo.

Carlo Mariano Sartoris
scrittore

fonte: civico20news

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