Fin dalla nascita, sua madre sapeva che Temüjin sarebbe stato un grande guerriero: il bambino era venuto al mondo con un grumo di sangue stretto nella piccola mano, nel “giorno chiaro del primo mese dell’estate dell’anno del cavallo d’acqua”, il 1167 (ma potrebbe essere il 1155 o il 1162). Un paesaggio aspro – montagne innevate, la steppa a perdita d’occhio e il desolato deserto di Gobi – accolse quel bambino destinato a diventare l’uomo che, solo a nominarlo, incuteva terrore: Gengis Khan, il guerriero che dalla nativa Mongolia riuscì a creare il più grande (anche se breve) impero della storia. Impero dove convivevano una miriade di razze e di religioni diverse, pastori nomadi e popoli dalla raffinata cultura, che l’analfabeta guerriero mongolo cercò di comprendere, e forse di assimilare. Ma in fondo in fondo lui preferiva essere il nomade che abitava “nella regione selvaggia del Nord”. E lì volle essere sepolto, quando arrivò alla fine della sua intensissima vita.