In un’epoca sempre più contraddistinta dalla onlife (per riprendere il neologismo di Luciano Floridi in “La quarta rivoluzione”), ovvero dal dato inaggirabile secondo il quale la vita, i suoi equilibri, i suoi ritmi, le individualità, le abitudini collettive, sono incessantemente riconfigurate (potremmo anche dire assorbite) da software, reti, policy, applicazioni, social network, poteva mai la morte, la dipartita, l’assenza improvvisa di un nostro parente o amico non essere acquisita, magari pure travolta, da questi nuovi assetti mentali, da un nuovo modo di fluttuare delle notizie e delle memorie, da un nuovo modo di considerare ciò che lasciamo ai posteri, comprendendo stavolta anche post, video, mail, preferenze, condivisioni, citazioni e quant’altro l’interazione elettronica ci detta ogni giorno di considerare una risorsa sui nostri account? Certo che no, è la retorica risposta. E così oggi cambiare mondo, esalare l’ultimo respiro, decedere, transitano in una sulfurea e tutta ancora da definire dimensione trans-funerea fatta di cimiteri virtuali, web-memorandum, lapidi col codice QR, chatbot e controfigure tridimensionali del defunto che quasi ci abituano a una sua “eternità”, o quantomeno ci allontanano l’idea della sua non-recuperabilità fra gli umani. A tutte queste indagini, con stile gradevole, ricchezza di esempi e interessanti affondi teoretici si dedica il giovane filosofo “tanatologo” di Torino Davide Sisto in questo suo bel “La morte si fa social”. A lui il varco e il giudizio più adeguati su queste delicate sfide che ci attendono.