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Città fuori dal tempo, fuori tempo.

Le festività natalizie sono sempre state la scappatoia delle cattive intenzioni e delle maniere ammassate, accalcate durante l’anno. Eppure oggi, a pochi giorni dalla fine di un anno che ha reso il mondo intero sterile di memoria, questa serenità e questo conflitto con rimorsi e rimpianti non li sento. Me ne curerò, forse, agli inizi di gennaio.
Si concluderà a breve un’annata acida come un vino fermentato che diventa aceto, per di più di scarsa qualità. Un concerto di Natale trasmesso in televisione ha fatto riemergere, come un’avida sanguisuga, alcuni ricordi di Natale degli anni passati: il veglione del 24 che fosse dall’una o dall’altra nonna, in cui si arrivava tre ore prima nonostante un’attesa abissale in divano davanti alla Tv prima di cenare, con l’intento giocoso di molestare il presepe lasciando le pecore sempre ribaltate, o rimpinzandosi in attesa di sedersi a tavola; il litigio tipico dei più piccoli nello stabilire che il regalo più grande per dimensioni e incartato con la carta più bella fosse il proprio, lasciando agli altri il rimanente, ritenuto di ben poco conto. Dei miei Natali ho sempre il pensiero di luci fioche, di candele che bruciavano troppo velocemente e che terminavano subito senza neppure avere l’eleganza di aspettare l’antipasto; di spifferi timidi, ma sempre puntuali, delle luci dell’albero ad intermittenza, dell’odore di fritto o del brodo già in ingresso, dei vestiti buoni, quelli che si tengono in armadio come reliquie scalze e immacolate.
Negli anni il contenuto dei pacchetti ha avuto sempre meno rilevanza, sempre meno protagonismo, come un attore giunto agli estremi eterni della propria carriera. Me ne rendevo conto nell’osservare nel tempo la pelle sottile e tesa delle mani delle mie nonne, tra tremolii e macchiette sempre nuove che a me facevano paura perché ne rilevavo la tirannia del tempo, o nell’ascoltare telefonate di parenti lontani che hanno smesso di arrivare. Sì, quelle telefonate in cui mia madre o mio padre erano soliti dire “sì, sì, Bea è qui, aspetta che te la passo e ti fa gli auguri direttamente”, con mio severo disappunto che poi si tramutava in sorriso poiché in fondo quelle voci mi riportavano con i piedi per terra, a nascondere le cattiverie del mondo. Potrei giurare di ricordare il timbro di ogni voce, che custodisco registrato in qualche scaffale della memoria, talvolta ingannevole, talvolta approfittatrice e nostalgica. Si aprono voragini dallo stomaco agli occhi, che sento sanguinare impazziti: a volte la mancanza di chi se ne va trascina con sé una piccola morte in tutto ciò che riguardava quelle mura, quelle porte, quel tavolo, quella poltrona, quel pettine dove giacciono ancora dei capelli.
Qualcuno un giorno mi disse “siamo solo di passaggio”, senza però rendersi conto della valenza e della verità che tale frase trascina con sé. Questa città, come molte altre, è andata fuori dal tempo, fuori tempo: i soliti banchetti di Natale, quelli delle piazze dove la nube e l’odore dei croccanti pulsa tra le colonne e i portici, quest’anno sono rimasti sepolti nei magazzini, lasciando orfane le strade e i passanti smaniosi di spese abitudinarie del periodo dicembrino. Abbiamo perso i ritmi, “che giorno è? Ma è davvero giovedì? Io pensavo fosse domenica!”, abbiamo perso la cognizione del tempo, del nulla, dello spazio in cui ci muoviamo. Strappando parole come petali da una margherita, ne ho sentite di tutti i colori: “io quest’anno non festeggio proprio nulla. Cosa dovrei festeggiare? Ho perso il nonno”, oppure “beh io festeggio comunque, almeno tappo il vuoto, altrimenti impazzisco, non sopporto il silenzio quando vorrei in verità urlare”. Fa effetto uscire di casa e vedere le luminarie pulsare senza occhi che possano goderne appieno: è un po’ come quando ci si prepara per un appuntamento galante che all’ultimo minuto viene disdetto, eppure noi siamo ben vestiti con tutta la tensione di una felicità che non ci sarà possibile realizzare. Sarebbe un errore fermarsi e non guardare avanti, nonostante le perdite, nonostante i ritrovi mancati attorniati da chi ci vuole bene e di cui sentiamo una mancanza spietata, ai limiti dell’umana sopportazione. Un monito, una preghiera: facciamo tesoro della possibilità di aver avuto al nostro fianco persone straordinarie, che fossero familiari o amici, quelli di sempre, facciamo tesoro del bene e del male, da cui si impara sempre, e trasformiamo il dolore della perdita in qualcosa di nuovo senza mai smarrire la speranza di un domani migliore e più accogliente.

Beatrice Roncato Villa

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