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Così come quel giorno sull’altare.

Osservo la nebbia. È come se da essa, impalpabile e mistica, potessero spuntare mostri smaniosi. È anche questo che mi piace di ottobre: accoglie nelle sue braccia fredde e pungenti i miei pensieri, cristallizzandoli e fermando per loro il tempo mentre procedo per la mia strada. Anche se è giorno, questa città mi pare un enorme cimitero: la nebbia la divora, la bistratta e la impaurisce dalle tenerezze primaverili e dalla presenza della pelle sempre in vista, tra vestiti di una quantità tale di tessuto che ci si potrebbe creare solo una cravatta. No: per me potrebbe sempre essere autunno! Alla fine dell’anno la mia mente viaggia a 300km/h ritornando ai mesi passati, a quelli più caldi, alle peripezie di giorni insoliti e poco attraenti, come un vecchio manichino di quelli abbandonati nelle vetrine, in attesa di essere rivestiti o buttati via per scelta di altri.
Nel mio lavoro ho sempre vissuto un doppio conforto: la presa in cura degli altri e, soprattutto, di me stessa. Nonostante questo non possa sempre essere accolto con cuore e con mente aperta, nonostante spesso e volentieri tale mansione possa impaurire anche le più morbose razionalità. E la mente viaggia veloce… gli unici fiori che vedo sopravvivere in giardino mi implorano pietà per poter entrare in casa: è come se li sentissi urlare, così come sento gridare quel piccolo albero di pesco acquistato in un giorno di giugno quando pensavo “chissà quanti mesi o anni ci vorranno prima che diventi un gigante buono”. E proprio nel silenzio della nebbia vedo i colori di questi fiori spegnersi, morire come la fiamma di una candela che cerco nel muro bianco intorno a me.
Il pensiero dunque corre a giugno, alla signora M. A passo svelto mi diressi verso la saletta per effettuare quel piccolo tocco gentile poco prima della funzione. “Che bella Donna”, pensai. Mani curate, un abito da festa, forse, di quelli con fantasie fiorite, ben stirato, le décolleté bianche immacolate. Era così giovane, ancora: e ogni qualvolta il tempo si approfitta troppo presto di certe vite, mi fermo un attimo a pensare. Quel giorno vi erano la figlia ed il consorte, in realtà a mio parere non ancora resisi conto di ciò che stava accadendo. Vi fu un patto silenzioso tra me e la ragazza, preoccupata che tutto fosse perfetto. I fiori, che ricordo bene come perdessero acqua dal poggia piante, li volle allineati come le galassie; il feretro, inizialmente mal posizionato, lo allineammo insieme come se avessimo in cura una creatura di cristallo. Si sedette al suo fianco, le parlò. “Hai visto, mamma? Anche io oggi sono truccata, tu che dicevi che non mi tiro mai”. Come se, sì, la Mamma la stesse ascoltando.
Vi sono certi sguardi e sorrisi con gli occhi che tendo a non dimenticare e che rimangono lì, in un minuscolo angolo della mia mente. Non pianse, anzi. La decisione di accarezzare la mamma un’ultima volta le venne come il gesto più naturale del mondo. Le tolse la parrucca, segno di un male troppo scomodo per rimanere nascosto. Nonostante il volto, in realtà, apparisse quasi incontaminato, come quei fiori di montagna che tanto adoro. Dopo aver sistemato le ultime cose, avvenne un fatto che andò oltre ogni mio modo di pensare, di agire, di credere. Il marito, sino a quel momento in silenzio e sino a poco prima seduto ad osservare e a dialogare con il vuoto, mise sul telefono una canzone, la loro canzone. “Te la ricordi, amore mio?”. Non lo guardai in volto, ammetto di aver avuto gli occhi tanto gravidi di lacrime da volermi voltare a fissare la porta del tempietto. Non bastò questo per farle capire che nei suoi pensieri Lei era ancora l’aurora inoppugnabile. Da dove, non so, adagiò una e una soltanto peonia sulle mani della moglie, cercando di posizionarla al meglio nonostante la plastica che la accoglieva e nonostante il velo si scontrasse provocando un fruscio alquanto fastidioso. Subentrò la figlia: “era il fiore del loro matrimonio”. Proprio quello. Non era un mazzo, era un timido testimone di un amore immortale. A volte, nella noncuranza del mondo, mi perdo nell’imbattermi con simili atti di gentilezza e di amore eterno. A volte, non riesco ad accettare tanta innocenza. Ed arriva quindi la fine, il tempo di andarsene lasciando agli altri un dolore più leggero.

Beatrice Roncato Villa

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