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La sospensione nell’Altro.

Regione gialla, Regione arancione, Regione rossa. Regione sfumata, nel limbo, del colore che continua a non retrocedere verso una gradazione più gradita. Rieccoci qui, accomunati da un male invisibile, ma tangibile, nel conteggio dei necrologi. Rieccoci lì, nella sospensione del domani dove l’oggi, l’adesso, sono ciò a cui ci ancoriamo come per prendere una boccata d’aria poco prima di immergerci con la testa totalmente sott’acqua. Un’acqua salata, proprio quella che, se la ingoi involontariamente, ti genera conati e capogiro tanto da farti promettere ogni volta di non volerne più sapere del mare, di quel sapore in bocca, di quel caos in mezzo alle onde che ti fa oscillare con i piedi tremolanti nella sabbia, senza equilibrio apparente. Solo che ora con la testa siamo dentro quella pozza salata già da un paio di settimane, da quando anziché procedere siamo tornati indietro. Solo che a tornare indietro si dimenticano i passi a rovescio e ci si è anche ben dimenticati di ricordare cosa sia accaduto nei mesi passati. Corpi, miriadi di corpi, pari a quei mucchi di anime trucidate in trincea, divenuti numeri e nulla più, immagini capaci di riempire un’intera pagina di un noto quotidiano bergamasco, ospedali pieni, brulicanti di meccanismi che respirano a dare l’impressione di una istantanea sviluppata troppo in fretta e per questo poco nitida, caotica, sovraesposta, spettrale.
Rimango sempre piuttosto incredula davanti alla capacità di certe umane creature nel dimenticare il proprio vissuto di dolore, le proprie pene e le proprie perdite. Lo giuro: a volte vorrei avere quella stessa astuzia nel perdere la memoria delle mie tribolazioni che, a quanto pare, riesco ad indossare come un anello di cui rimane il solco sgradevole a ricordarmi che la mia mano non sarà mai più liscia e senza ombre su quel punto. Noto spesso come, invece, si faccia fatica a staccarsi da quel cordone ombelicale dei sospesi, dentro il liquido amniotico di scelte, di omissioni, di parole non dette, di gesti non perpetrati capaci di scavare, come un tarlo bramoso e sgraziato, anche per giorni, mesi e anni nel legno della nostra memoria, sino a bucarla, sino a renderla un colabrodo che incoerentemente ci piace sopportare così. In questi mesi, ormai, di sospesi e di sospensioni ne abbiamo vissuti tanti da divenire funamboli. Soprattutto, siamo rimasti sospesi negli altri. Sospesi nelle carezze assenti, nelle telefonate che, e chi lo avrebbe mai immaginato, sarebbero state le ultime, così come sospesi nel credere che quell’abbraccio sarebbe stato sempre il penultimo di una lunga serie, in verità spezzata da una diagnosi improvvisa e che ha lasciato poco spazio a vanesie speranze. Sospesi nelle nostre perdite senza legittimazione, senza commiato, senza nobili intenzioni rivolte al futuro. Ogni sospensione comporta un’assenza, un senza, e ci fa rimanere privati di difese sotto i piedi, né ci fa percepire un cielo ben più vasto sopra di noi. Le perdite avvenute da febbraio ad oggi sembrano appartenere a categorie di ultima importanza, dove l’assenza di cura – dovuta all’impossibilità di un semplice abbraccio – ha reso la Morte ancora più eccezionale, evento indomito e ripetitivo come in una catena di montaggio di cui non riusciamo a fermare l’interruttore. Morte, quando anche Tu appenderai la tua veemenza? Certo, mai.

Beatrice Roncato Villa

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