A un giorno dallo schianto, il cratere dell’impatto è ancora ben visibile: nero, fumante, puzzolente di carburante e di plastica bruciata. Se un atterraggio d’emergenza è stato tentato è chiaro anche a occhio nudo come sia fallito miseramente. Nessuno a bordo aveva la minima possibilità di sopravvivere. Una ruspa arancione gratta la terra bruciata perché i tecnici etiopi e americani che hanno preso la responsabilità dell’indagine pensano che qualcosa del Boeing 737 possa essersi addirittura infilato sottoterra. Tanta era la velocità, tanta era la violenza con cui l’aereo è arrivato al suolo. Più come un missile con il muso in basso che come un aereo che tenta di planare e magari atterra di pancia o di coda. La ruspa smuove le zolle con la delicatezza di cui è capace. Poca. L’aereo si è sbriciolato a una cinquantina di chilometri da Addis Abeba, ai piedi di collinette verdi, su un’area di terra fertile grande come due campi di calcio, ma ci sono pezzi della carlinga e vestiti bruciacchiati anche a tre chilometri di distanza. Non esiste neppure una vera e propria scena del disastro.