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Dai un suono al tuo lutto.

Ciascuno di noi vive i propri lutti (vivere un lutto… la danza del paradosso) con suoni, colori, dolori e sapori diversi. Se dovessi chiederti “Che colore dai alla Morte? Che sapore le dai? Che rumore le dedichi?”, cosa replicheresti? Ogni volta che una parte di noi muore si spegne un piccolo interruttore del quale io faccio ancora fatica a trovare l’ubicazione in me. Sarà nelle mie mani? Che tanto hanno accarezzato il volto. O nelle mie spalle? Strette negli abbracci. O sarà nel mio ventre? Dove ripongo ogni tensione in cui inciampo nel corso dell’esistenza. Certamente, un luogo non vi è.
Credo che il lutto sia una coltre silenziosa, una coperta che lascia scoperti solo gli occhi, unici guardiani delle presenze intorno a noi. Ma una coperta fredda, di quelle che non ti riscaldano e che anzi generano disagio tanto da preferirne la mancanza. E chi non preferirebbe la mancanza di un lutto? Ma se dovessi dargli un sapore, sicuramente il lutto per me sarebbe quello della cannella o delle brioches alla crema cotta. Se dovessi conferirgli un odore sarebbe il borotalco, o l’odore di mille sigarette accese, di mozziconi ammassati come corpi in quel posacenere di vetro. Un colore? Potrei esserne certa: il bianco scioccante e asettico, tipico di luci disperate e troppo violente per accorgersi dei corpi che illumina, talvolta invadendoli e infastidendoli. Se dovessi dargli una sensazione al tatto, sarebbe quella di mille lame tra le mani o di altrettanti aghi conficcati negli stinchi.
Il lutto è una passeggiata nel fango o sui carboni ardenti. Ovviamente a piedi nudi, è chiaro. Il lutto è una danza dove si indossano scarpe scomode, strette, di quelle che ti fanno sanguinare i piedi. Una danza senza frequenza, senza suono, nel buio. In solitaria, senza guida, senza incrocio di passi. Il lutto è una morsa alla gola, il flebile stringere dell’invisibile che lascia il segno sino a strozzarti. Il lutto è un telefono che non squilla, che non emette suono. Biglietti di auguri mancati e posti a tavola vacanti durante le Feste. Sono sguardi mancati, occhi che non si incrociano. Il voler raccontare la tua giornata al vuoto impalpabile, perché risposte non avresti. Il lutto è un’attesa al binario del treno, che arriva troppo veloce e improvviso tanto da sbalzarti al di là della ben nota linea gialla. E tu rimani con il binario vuoto e ti chiedi se sia davvero passato questo treno.
Ma che rumore fa il lutto? Se potessi dargli un suono sarebbe un tonfo, un grido, il canto di una civetta, il rumore del vento che ti fischia nelle orecchie per poi fuggire e burlarsi di te, ancora incredulo di sentirne la voce, rincorrendola nell’invisibile. Forse, a volte, il lutto un rumore non lo ha. Il lutto è silenzio, è vano, vacuo, il lutto è una stanza vuota senza eco. In realtà, il lutto fa rumore, eccome se ne fa. Posso sentire a tratti le grida, la disperazione, i pianti soffocati, il suono dei chiodi che chiudono una bara, posso sentire il coperchio appoggiarsi timido, ma spietato, sul feretro, e le parole affievolirsi una volta imbottigliate in quel vaso di legno. Perché il corpo per me è un fiore, anche se appassisce dopo un bel po’. Penso non ci si abitui mai a certi rumori e a certi suoni. Il tutto è amplificato, sembra di poter sentire il sangue circolare nelle vene, come se scorresse in superficie. Sembra di poter sentire ancora quelle voci che in realtà puoi ritrovare, con un po’ di fortuna, nelle vecchie segreterie telefoniche o nei tuoi ricordi. Il rumore dell’organo che rimbomba tra le mura di chiese esauste di battesimi, di matrimoni e di funerali, il rumore dei fiori appoggiati sugli altari, sugli scalini e sui poggia piante. Il rumore dei passi sul pavimento, come una marcia bellica, o il rumore di nasi soffiati, di singhiozzi strozzati e di vagiti destinati a cadere lì, sul pavimento della chiesa, custode di chissà quante lacrime e sorrisi. È ancora il rumore delle campane, e delle rotelle spesso scricchiolanti – noncuranza nell’oliarle – che trasportano il feretro a passo d’uomo, sospeso da otto mani. È il rumore del silenzio, quello che nasce arrivati al camposanto, disturbato dagli attrezzi del mestiere di chi deve poggiare una lastra marmorea in catena di montaggio.
Perché il lutto fa rumore, e ognuno ha il proprio rumore del lutto. Il 2020 è stato terribilmente assordante, tra commiati violentati dalla censura e dalla distanza. Ormai quei morti sembrano non far più rumore, tra la ripresa della vita e dell’essersi lasciati alle spalle, per i più, una vita di clausura forzata e di avara libertà. C’è chi invece questo rumore lo accoglie con grazia e lo invita come un conoscente, un vecchio amico di tutti spesso lasciato agli angoli della vita. È il Rumore del Lutto, la rassegna dedicata alla morte e al morire nata grazie all’ingegno di Maria Angela Gelati e di Marco Pipitone che quest’anno è giunta alla XIV edizione. Nata a Parma nel 2007, questa rassegna culturale è un invito a quel fatidico primo passo che ognuno di noi deve compiere verso una Death Education ancora timida, ma che procede a piccoli passi, quasi gattonando, nel nostro Paese. Ripropongo le preziose parole di Maria Angela: “nessuno di noi è un’isola e a ciascuno sia sempre data la possibilità di affrontare con successo ogni momento difficile, passando dalla fragilità alla forza, dalla perdita alla resilienza”. A Parma, dal 17 ottobre al 7 novembre.

Beatrice Roncato Villa

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