Di vuoti privati potrei parlare per ore. Oggi è il fatidico 2 novembre. In realtà la città sembra dimenticarsene: è un lunedì dei tanti, di quelli che iniziano una settimana senza premura alcuna dei giorni a venire. Il passo di chi va e viene per il cimitero è accompagnato da un sole silenzioso, ma a cui piace mostrarsi portando in questo autunno la miseria della calura quasi estiva.
Danzo per le strade, camminando tra queste foglie che ricordano tizzoni ardenti, ma che rendono giocoso il passaggio delle automobili: l’essere sfiorato dalle ruote, con il loro modo inopportuno di disturbare tutto ciò che incontrano per strada, fa sì che il fogliame si sollevi da terra in una sorta di “noli me tangere” mostrando in tutta severità quanto una foglia possa essere, nella sua delicatezza, infrangibile.
A volte mi sento come quelle foglie, ribaltata dal tempo eterno che si blocca al passaggio di una macchina per poi tornare a fluttuare nell’aria tra i miei pensieri. Questo novembre è una sorta di salto temporale in ciò che fu l’inizio di quest’anno fatidico: la “normalità”, termine ormai rivalutato e raccapricciante, ma non più rassicurante, ha deposto la propria lastra tombale ancora nel mese di febbraio quando, riguardando vecchie fotografie, ancora la pandemia era un’utopia facilmente derisibile e la nostra “libertà” ancora sfuggente a mascherine che altro non fanno che nascondere bocche tristi, sterili di sorrisi.
L’estate aveva portato con sé quel noto e amato termine speranza, laddove il caldo estivo trascinava nuove illusioni, corpi s-vestiti a festa tra le vie delle città dove il contatto umano, assopito e sepolto da giorni costretti in casa, ritrovava gioia innata nell’incrociare gli sguardi altrui.
E ora? Sì, perché novembre porta lo strascico dell’abito di ottobre che, stanco dell’anno quasi giunto al tramonto, se ne spoglia lasciando dietro di sé un’ora in meno di luce e le città, inghiottite nel buio e nella solitudine, altro non possono fare che osservare in silenzio le poche anime che si aggirano per queste vie strette lastricate di pietra e di passi discordanti. La città è nuda di fronte all’abbandono di noi umani che, costretti ancora a seguire orari ordinati e sacrifici in casa, dobbiamo lasciarla lì come un’amante scomoda e troppo pretenziosa: il silenzio si arrampica sui palazzi e su quelle luci sterili dei lampioni sparsi saggiamente per le vie, chiedendosi da sé cosa stiano illuminando. La luce buia non aiuta, soprattutto quando è qualcuno ad andarsene. Ho sempre pensato che un lutto novembrino sia terribilmente scomodo e crudele, più di quello patito negli altri mesi. È poco prima di Natale, è poco prima della chiusura dell’anno, è poco prima delle promesse e dei propositi che ci si augura sempre avvengano allo scoccare del nuovo anno. Il freddo di novembre si aggiusta perfettamente come un capo di sartoria alla pelle che teme il freddo pungente invernale e che, soprattutto, teme quei fatidici giorni di festa dove le sedie vuote e i posti a tavola senza posate riescono a spaccarti le ossa. Ma è ancora presto, è ancora novembre.
Beatrice Roncato Villa