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Ogni santo giorno.

Ottobre sta tirando su la coperta, è ora di andare a dormire anche per lui. Mese intrepido, sistematico, valorizzatore e carnefice degli errori dei tempi passati: sento tremare i nervi di ogni persona che incontro, che sento, che osservo per strada. Leggo il terrore negli occhi di chi, privato di spostare, sostare, agitare e sentire il proprio corpo, proprio non ne vuole sapere di un altro sadico e indecente lockdown. Siamo talmente abituati alle nostre libertà che molto spesso dimentichiamo di averle e, appena di nuovo in possesso di tale coscienza, torniamo a non rispettare i nostri limiti e a non placare i nostri istinti: vige la legge del “faccio quel che voglio, vivo oggi”, una teoria del vivere “bene” poco attendibile, quella del “qui-ora” vissuta però in modo estremo e privo di coscienza. La paura dell’Altro, la paura del potenziale untore, la paura di evitarlo troppo o troppo poco. Il terrore di vedersi negato il gesto di una stretta di mano o di un abbraccio. Il terrore di noi stessi, nel nostro essere soli, di non riuscire ad ascoltare il nostro silenzio, di tenere testa alle nostre paure. No, sinceramente spero che non vi sia un altro lockdown.
Il 2 novembre è l’epifania dei sensi di colpa, l’incapacità di mantenere fede ad un patto costante di portare un fiore, di pulire una lapide, di passare una scopa e di strappare vecchie radici. Evito con immensa cura di recarmi al camposanto quel giorno. Il cimitero sembra rianimarsi ricordandomi le “Smanie per la villeggiatura” del Goldoni: orde di figli, nipoti, vedove e vedovi, vestiti a festa con fiori in mano appena comprati nel chioschetto davanti al cancello che tanto attende i primi giorni di novembre per svuotare un po’ scaffali pieni di fiori che sembrano statue di petali. Intenti in una corsa contro il tempo, sul chi arriva prima, con il passo svelto di chi vuole giungere presto e andarsene con altrettanta impazienza, questo atteggiamento non l’ho mai compreso. Io che ho sempre portato un fiore, o solo le mie mani vuote, durante i pomeriggi del sabato, della domenica o di ogni santo giorno qualora ne avessi sentita la necessità, in orari strategici dove non fosse facile incrociare ammassi di individui nostalgici allo scoccare della mezzanotte del 2 novembre.
Tempo fa mi ritrovai a parlare con una cliente, una vedova che, smaniosa di rifare la fotoceramica del proprio consorte, passò per l’ufficio più volte rendendo il nostro appuntamento abitudinario sebbene l’affare fosse stato sistemato e concluso nel migliore dei modi. C. è la classica Signora che darebbe un rene pur di fare il regalo di Natale più ricco ai nipoti: confidente spesso e volentieri del suo senso di solitudine e di perdita di senso della vita, dovuta ad una vecchiaia tanto maleducata quanto dispettosa, ebbra di acciacchi e di scale in un condominio privo di ascensore. Cominciammo a vederci tanto spesso da dimenticare il perché di quegli incontri: una volta riposta la foto nuova sulla lastra, io e il titolare la ripulimmo per bene, riportando il marmo a una luce che da anni moriva sotto uno strato di polvere sterile. In realtà, lei a portare i fiori non va mai: amara scoperta. Il suo era solo un gesto devoto nascosto ai suoi stessi occhi: l’importante era che quella lastra fosse stata sistemata. questo Lo sa lei e lo ho capito anch’io. Lei sa che l’unica persona con cui vorrebbe parlare è la stessa che non può più ascoltarla.

Beatrice Roncato Villa

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