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26 dicembre 2006. Addio a Gerald Ford, il Presidente mai eletto.

Di Gerald Ford, presidente che successe il 9 agosto del 1974 in circostanze drammatiche al dimissionario Richard Nixon alla guida degli Stati Uniti, si ricordano due cose: la grazia concessa al predecessore appena un mese dopo essere entrato in carica; e la gaffe con la quale lasciò in pratica via libera al rivale Jimmy Carter nelle presidenziali del 1976. Nel corso del dibattito tv che Ford condusse con padronanza e maestria fino all’ultimo, il presidente scivolò su una frase: “Non c’è nessun dominio sovietico in Europa Orientale e mai ci sarà sotto una presidenza Ford“.
Apriti cielo. Non era quello che voleva dire, intendeva ben altro – come ha spiegato Dick Cheney che di Ford fu capo dello staff in un libro – ma la stampa saltò a piedi uniti sulla storia e decretò la fine delle speranze di elezione del presidente che non venne mai eletto. Nemmeno alla vicepresidenza. Già, perché Ford, nato a Omaha, Nebraska nel 1913, marito di Betty (morta nel 2011), avvocato, ex deputato e leader della minoranza repubblicana al Senato, conservatore moderato, decorato combattente della Seconda Guerra Mondiale, al posto di vice Nixon ci era arrivato nell’autunno del 1973 quando Nixon silurò Spiro Agnew. La scelta di Nixon cadde su Ford proprio perché “Jerry” era molto apprezzato al Congresso e nel pieno della bufera del Watergate, calcolò non avrebbe avuto problemi a ottenere la ratifica.
Così successe (anche se con qualche patema in più del previsto).
Il 6 dicembre 1973 divenne vicepresidente, il 9 agosto presidente. Il 21 gennaio 1977 un cittadino qualunque cacciato dalla Casa Bianca da un semisconosiuto democratico che però nel clima di caccia alle streghe e di repulisti generale aveva fatto una campagna elettorale anti-establishment e Ford di quel mondo faceva parte.
Non si era macchiato di nulla per il Watergate, ma da vicepresidente aveva difeso in lungo e in largo per il Paese Nixon. Questo, oltre alla grazia, segnò appunto il suo declino politico. Nei mesi in cui tenne le redini del Paese Ford si trovò ad affrontare la crisi economica, con l’aumento dell’inflazione e della disoccupazione (quasi al 7% nel 1976), problemi ai quali non seppe dare una risposta efficace e anzi facendo sprofondare l’America in un periodo di stagflazione. Sul fronte della politica estera si trovò a incrociare i guantoni con il suo stesso partito dove la componente reaganiana (i conservatori eredi di Goldwater) stava diventando rumorosa, corposa e influente (tanto che nel 1976 lo stesso Reagan contese la candidatura a Ford obbligandolo alle primarie e ritirandosi solo alla Convention di Kansas City).
A Ford e al suo team di politica di sicurezza nazionale, Kissinger in primis e in genere lo staff che Ford aveva ereditato da Nixon, la destra contestava il tentativo di allentare le tensioni con i sovietici (détente). Gli anni ’70 erano stati in fondo un periodo (grazie anche a Nixon) in cui le due super potenze avevano cominciato a esplorare delle vie per lavorare insieme sulla sicurezza senza che ovviamente questa vicinanza scaturisse in nulla di simile nemmeno a una mezza alleanza.
Ma questo approccio era sgradito all’ala destra che contestò gli accordi di Helsinki del 1975 con Brezhnev e vedeva malamente l’accordo SALT I del 1972 sulla limitazione degli armamenti strategici. Stretto dal “nuovo” Carter e dall’intransigenza dei conservatori, sfiduciato da un Paese che gli rimproverava una certa connivenza con Nixon, Ford perse le elezioni e si ritirò in California.
Senza rinunciare alla politica (anche se non più attiva). Commentatore, entrò in diversi board.
Morì il 26 dicembre del 2006 con la convinzione ancora radicata che il perdono che aveva garantito a Nixon era stata l’occasione per l’America di chiudere un capitolo vergognoso e tragico della sua storia. E gli analisti in questo oggi concordano: fu proprio l’onestà e la forza morale di Ford a restaurare la fede degli americani nella politica e nei suoi massimi interpreti.

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