Addio a un altro grande vecchio. Grande nell’arte, grande nelle idee. E nelle polemiche. “L’arte astratta? Il rifugio degli incapaci”. E anche: “A chi mi sono sempre ispirato? A Donatello. Michelangelo no: lo trovo troppo eroico, quel baroccone…”. È scomparso a 104 anni Gualberto Rocchi, milanese, scultore formatosi giovanissimo alla scuola severa di Messina, Marini, Manzù. Figlio d’arte, ma di un compositore e maestro sostituto alla Scala, laureato artista a Brera nel 1938, tempo in cui l’Accademia era uno degli ambienti più stimolanti e anche fruttuosi per chi aveva talento. Per Rocchi nei decenni avevano posato le più celebri star di Hollywood, i regnanti più potenti al mondo, scrittori, direttori d’orchestra, persino un astronauta. Qualche divo: Henry Fonda e Jack Nicholson, Rex Harrison e Yul Brinner. Qualche testa coronata: lo Scià di Persia, Khomeini no, “Non mi è mai stato chiesto”, la famiglia reale d’Olanda, i sovrani di Spagna, che si erano prima sempre rifiutati di mettersi in posa per qualunque artista. E in Italia? Consapevole del proprio valore, della propria capacità di riprodurre occhi, bocche, guance, di creare sculture a perfetta somiglianza del modello, Gualberto Rocchi amava raccontare senza false modestie un episodio accadutogli davvero a Roma. A un party conosce una giornalista amica di Giulio Andreotti, che gli presenta il “divo Giulio”. Il tempo di stringere un accordo e Andreotti riceve Rocchi e posa per lui. In piedi, per pochi minuti. Quando lo scultore gli consegna il ritratto in marmo di Carrara, Andreotti, sorpreso di specchiarsi nell’opera, esclama: “Ma sono uguali anche i capelli!”. Non è mai stato facile allestire le mostre delle opere di Gualberto Rocchi. E certo non sarà facile allestirne in futuro, per celebrarlo, come sarà doveroso, soprattutto a Milano. Potrebbe Capitol Hill, a Washington, tanto per fare un esempio, privarsi del busto dell’ex presidente Nixon che saluta i visitatori al primo piano?