Erano tre giovani furfantelli. Dei banalissimi ladri di arance. Ma mica le rubavano per divertimento. No, non erano certo tipi che avessero il tempo di andare per i campi a fare i goliardi. Sì, perché all’epoca, a Sciacca (come ovunque), imperava la fame. Fame: parola drammaticamente inequivocabile.
Fu lei (la fame), quella notte di dicembre del 1940 a spingere i tre a sfidare il freddo e a fare rifornimento di navellini. Non si aspettavano di essere interrotti dalla vista confusa tra le tenebre di due divise. Erano giovani carabinieri che si erano appostati e che adesso erano pronti ad intervenire, per mettere fine alla loro carriera di malviventi, in flagranza di reato. Apparantemente una vicenda semplice semplice, niente di criminologicamente rilevante. E invece no: quella notte la tragedia era dietro l’angolo.
“Fermi”! – urlarono i servitori del Regno rivolti ai ladri.
Ma loro non si fermarono. Al contrario: si diedero alla fuga. Ne scaturì un lungo inseguimento per le campagne. A piedi, ovviamente. Niente scene da gangster movie americani, s’intende. E, poverini, i carabinieri non disponevano nemmeno di un cavallo che potesse agevolargli l’azione. E pensare che il Duce, prima di impegnarsi a spezzare le reni alla Grecia, aveva consegnato la dichiarazione di guerra alle ambasciate di Francia e Gran Bretagna. Qui serviva appena appena un cavallo. A spezzarsele le reni erano i due carabinieri all’inseguimento di tre ladruncoli da strapazzo. Le pesanti bardature delle divise, il berretto d’ordinanza da mantenere saldo sulla testa, la bandoliera che si agitava sulla giacca non rendevano facile la vita. Probabilmente avrebbero anche preferito rinunciare all’azione. Ma non potevano farlo. Dovevano procedere.