15 settembre 2006. Oriana Fallaci è morta in una stanza al quarto piano della casa di cura Santa Chiara le cui finestre si affacciano su Piazza Indipendenza e dalle quali si scorgono la cupola del Duomo di Firenze e un incantevole scorcio panoramico della città. La giornalista è stata assistita dalla sorella Paola e da un nipote, che l’hanno vegliata fino all’ultimo momento, assieme ad un medico di fiducia. Del suo rifiuto di inutili farmaci, se ne è fatta retorica. Pochi intimi, oltre alla ristretta cerchia di parenti, erano a conoscenza del ricovero, del progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute e del suo rientro in Italia dagli Stati Uniti dove la Fallaci risiedeva stabilmente. Tra le disposizioni da lei impartite quella di togliere il suo nome dalla cartella clinica e di avere esequie in forma strettamente privata.
È stata sepolta nel Cimitero degli Allori, dove riposano uomini di ogni religione. Ultimo atto di integerrima coerenza: un territorio che accomuna nell’eterno riposo le spoglie di esseri vissuti con il mito dell’appartenenza e della libertà. Là dove giacciono tutte le persone a lei più care: i genitori, la sorella e, accanto, il ceppo di Alekos Panagulis, “l’uomo” della sua vita.
Le volontà espresse dalla grande giornalista fiorentina, paiono essere un forte messaggio lanciato al proprio mondo, una forma di ripudio in cui leggere, tra le parole ormai mute, l’eco ridondante di un suo ultimo rifiuto. Il rifiuto del clamore che glorifica la morte. Quella morte che, nel corso degli eventi di una vita avventurosa, troppe volte ha visto giacere violenta e dimenticata, prematuro effetto delle follie dell’uomo. E poi, il rifiuto di un commiato condiviso con la sua, la nostra civiltà occidentale, di certo decadente e sempre più distante da un vero Dio, spesso sorda e poco complice nella sua ultima, scomoda crociata. Morire non è bello, ma ci tocca. Forse, ancora più esigente e duro è per chi, pur consapevole della fugacità del tempo, sente addosso il peso della responsabilità di essere una entità inconsueta e di portare sulle spalle il dovere di continuare ad esistere per seguitare a battersi nel nome di forti ideali, i propri, non importa se condivisi o vilipesi.
Oriana Fallaci è morta sapendo di morire. Ha chinato il capo di persona di fronte a quell’evento che tante volte, fin da bambina, partigiana in erba, le si è parato davanti in tutta la sua violenza. Morte che, negli anni a seguire, ha fotografato con gli occhi durante le sue molteplici, dure esperienze di reportage sui terreni devastati da quelle guerre delle quali ha sempre denunciato la profonda idiozia. Non aveva voglia di morire, ha combattuto una sua guerra personale con forza e con dignità, sapendo di dover perdere. Lo ha fatto dichiarando pubblicamente la sua malinconia nel dover abbandonare il campo, ma la paura no. Non si può aver paura di lasciare questo mondo in modo naturale dopo aver visto tante atroci morti premature. Non si può aver paura di morire dopo aver imparato a metabolizzare la morte. Non si può aver paura di morire quando si è raggiunta la consapevolezza che l’orgoglio, la libertà di esistere liberi e la nobiltà del vivere sono più importanti della morte stessa.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, la presa di posizione della Fallaci rispetto al terrorismo estremista islamico e delle sue radici storiche, è nota a tutti, sebbene nei confronti della religione cattolica non sia mai stata tenera. Non lo è stata nella pubblicazione dei suoi primi best seller, non lo è stata nei riguardi di Giovanni Paolo II, pur stimandolo per aver contribuito alla caduta del comunismo, non gli perdonava di aver ignorato il pericolo rappresentato dalle minacce del fondamentalismo islamico nei confronti dell’occidente e l’aver chiesto scusa per le Crociate. Ma con Benedetto XVI aveva condiviso l’amore per i valori dell’Occidente e il rifiuto del relativismo, e il suo atteggiamento era decisamente mutato. Delle sue posizioni radicali e del suo atteggiamento sfacciatamente provocatorio è stato detto tutto e il contrario di tutto. Ne è stata chiesta la condanna per dichiarazioni blasfeme e le proteste nei confronti di un razzismo dichiarato si sono sovrapposte. Condanne dalle quali la giornalista si è sentita quasi gratificata e che ha sempre trattato con quello sprezzo di chi è profondamente ancorato al proprio pensiero e non lo rinnega, neppure fosse l’unico contro il parere di tutti. Quasi con benevola ironia, rivolta a certe prese di posizione di facciata di chi non ha capito o non vuol capire. Giusti o sbagliati che siano, sono questi gli atteggiamenti di chi crede e non cede. Quasi si deride quando, riferendosi alle condanne, si paragona ad una strega da mettere al rogo come ai tempi dell’inquisizione.
È il caso di soffermarsi sulla scomparsa di una penna sagace e potente; di una italiana che ha saputo far bene il proprio mestiere, rimpiangere e ringraziare quell’eccellenza nello scrivere, alla ricerca del massimo effetto comunicativo attraverso una cura maniacale nell’utilizzo di un italiano perfetto. E poi tacere, ricordare, aprire uno dei suoi libri, leggere, e con dovuta riverenza, riflettere. Non ha lasciato quel figlio che avrebbe voluto, dietro di sé, ma un’altra vasta eredità di pensiero e di spregiudicata, emancipata valutazione, senza collari né dogmi, senza schemi preordinati, né schiamazzi di partito, sì.
Carlo Mariano Sartoris