Nel giorno dell’anniversario della scomparsa di Mike Bongiorno, lo ricordiamo con le parole con cui è stato commemorato all’epoca dallo scrittore Carlo Mariano Sartoris.
La ruota gira, la ruota si è fermata. Morire non è opera gradita, ma prima o poi ci tocca. Farlo a 85 anni, senza soffrire probabilmente più di tanto, farlo in un residence del lussuoso Principato che racchiude la crema del jet set mondiale, potrebbe dare l’idea di affievolire l’inevitabile evento. Farlo in un tiepido giorno di settembre, non lontano dal mare, quasi giocando un brutto scherzo ad un intero popolo che celebrerà la dipartita con un succedersi di sincero cordoglio e con ogni forma di profonda stima, potrebbe essere intesa come una buona maniera per onorare degnamente un irripetibile e magnifico trascorrere del proprio tempo. Morire senza lasciare chiacchiericci e ciarle in pasto a giornalisti senza ritegno, per un uomo di spettacolo è una vera rarità. Morire lasciando dietro sé una scia di garbo, di sagacia, di intelligenza creativa, di signorilità e, infine, di grande rimpianto pare un modo estrapolato dal manuale del coronamento di una vita irripetibile, straordinaria, indubbiamente nata già sotto una buona stella e adoperata con rara sagacia. A caldo, in molti ammettono che amerebbero finire così, senza soffrire, osannati e ricordati nel tempo.
Ho ascoltato i tanti commenti riferiti alla perdita quasi precoce del nostro grande Mike, commenti strappati a gente per strada, commenti di volti noti, di personaggi importanti. Commenti sinceri, unanimi e accomunati dal medesimo rimpianto per un uomo che sembrava appartenere un po’ a tutti: il grande Mike, l’ineguagliabile, l’irripetibile re della televisione non avrebbe dovuto lasciarci mai. Non ha potuto scegliere, non vi era la busta numero 1, né la 2, né la 3, non vi era un jolly da giocare. Il re è morto, evviva il re! Molti però, tra le rughe dei volti, velatamente si compiacevano di questo morire quasi fortunato, poco doloroso, apparentemente disegnato a guisa da un destino bonario, per quell’uomo fatto così, davvero unico nel suo genere come la sua vita irripetibile. Una corsa interrotta in un istante, una fine a prima vista perfetta per chi ha vissuto, come egli stesso diceva, ”a mille all’ora ” e che “sapeva” sarebbe terminata così. Credo invece che separarsi da questo mondo di colpo, quando si è celebri e brillanti, non sia affatto un privilegio. Forse è più leggero andarsene quando non se ne può più, quando il male o l’infelicità latente ed ogni forma di umana sofferenza rendono il vivere così pesante che lasciarlo per sempre non è più cosa importante. Deve essere triste accorgersi che la fine arriva indesiderata e senza garbato preavviso, stroncando entusiasmo, vitalità, genialità e quant’altro di buono un uomo intelligente e consapevole di sé ravvisa e conosce. Deve essere crudele percepire lo svanire in un lungo, interminabile attimo: programmi di vita, programmi di lavoro, programmi tv, amore mai tradito di una vita.
Deve essere spietato piombare nel mistero sebbene a 85 anni, lasciando una meravigliosa realtà vitale ed incompleta. Una bellissima partita ancora da giocare, non ancora finita. Deve essere terribile e bellissimo morire così: mai vecchio, lasciando una nazione con gli occhi lucidi e l’amore di una famiglia che già ti onora e che rimpiange, che ti ringrazia per essere stato vivo. Suppongo che questo sia uno degli angoli più duri della consapevolezza del sé. Quella consapevolezza che caratterizza uomini tutti d’un pezzo; uomini che hanno saputo celebrare la propria esistenza, ideando, mettendosi in gioco, lo sguardo teso in avanti, insaziabili pionieri sempre in cerca di nuove frontiere. Uomini che sembrano destinati a non invecchiare mai, a non avere fine, perché il pubblico modesto, umile e comune, così come quello edotto, sfarzoso ed elegante, in eguale misura ha bisogno di loro. Il grande Mike era uno di essi, un uomo prescelto da una oscura sorte per entrare nella schiera dei grandi, degli immortali, leggendario caposcuola schietto e geniale. Così è da subito e per il futuro sempre sarà. Ognuno di noi gli deve qualcosa perché il ragazzo americano, il grande conduttore, l’uomo semplice e viscerale, l’astuto, ironico e imprevedibile volto del nuovo mito, della tv, ha veramente contribuito allo sviluppo culturale dell’Italia che era e di quella che è, distinguendosi per carattere, per disinvoltura e per contegno, miscela di componenti che raramente si racchiudono in un unico uomo.
Il grande Mike, in oltre mezzo secolo di vivacità televisiva, ha velatamente partecipato alla crescita raziocinante di tutti, trasportandoci nella magia del video e lì mettendoci alla prova, interrogandoci, stimolando un enigmatico capriccio di conoscere, selezionando personaggi dalle intelligenze sorprendenti. Loro, i concorrenti, fugaci volti in gara intellettuale che, da dentro le cabine concentrati sulle domande impossibili, hanno lasciato spesso stupefatti e ammirati noi, ora grandi che fummo piccini, i nostri figli, i nostri padri. Anche questo è stato un metodo per istruire la massa in modo semplice e geniale, per educare, per porre le basi di un inconscio desiderio di sapere. Ne eravamo quasi inconsapevoli; adesso, come spesso accade nel momento del poi, ne abbiamo preso coscienza. È un sentimento comune, avvalorato da ricordi e da rimpianti: il coro di consenso è unanime, non adulterato da falsità e forzature. Ma non solo. Il grande Mike, nell’ultimo atto, nel momento finale e più importante di tutta l’esistenza, estrema domanda di questo grande quiz che è la vita, nell’Olocausto che attende e che riscuote storia e tempo di ogni uomo, ci ha lasciato in ultima eredità la prova che concordia e appartenenza sono sentimenti semplici, ma più forti di ogni ideologia.
Ciò che mi viene spontaneo pensare è che, nel cuore del funerale, funerale di Stato, in quel momento di grande commozione, là, dall’interno del gotico, candido Duomo di Milano, Mr. Allegria, l’inventore, il trasformista, ci ha fatto il dono della sua ultima, originale trasmissione: ha nuovamente unito tutti in un’unica, triste, eppure quasi gaia, profondissima emozione. Come un paterno amico di tutti gli italiani che se ne è andato senza domandare a noi il permesso, ora ci manca già. Critico come sono, per genetica natura, non mi sono mai lasciato coinvolgere facilmente da certuni programmi e altrettanti presentatori, ma al Michele nazionale quasi mai ho detto no: concentrato sulla poltrona, ho tentato anch’io di rispondere ai quiz, assorbito dal pathos culturale, quasi come se fossi in onda. Ed ora anche per me è il momento di concedermi a certe tardive riflessioni.
Il grande Mike ci sapeva fare; animatore ipnotico, a volte pareva quasi fallace, ma sempre indistruttibile, tanto spontaneo quanto a volte artificiale. Lo definirei il principe di quei protagonisti che sanno diventare un patrimonio umano dal quale sgorga una sorgente che disseta tutti. Un solo uomo che bastava al tutto, semplice nella sua notorietà: un grande inventore di concordia popolare, di coesione, di pacifica, mediatica competizione. Un esempio ormai raro dal quale, a mio flebile parere, in questo stanco momento storico, caratterizzato da tensioni e da volgarità sempre più incomprensibili, dovrebbero essere molti a trarre ispirazione. Nel momento in cui ha abdicato la vita, l’Italia che guarda la tv, l’Italia che siamo ognuno di noi, l’Italia tutta intera si è risvegliata buffamente attonita, più povera e smarrita, ma, per misteriosa alchimia, forse più consapevole di ciò che è diventata nel tempo intercorso tra la nobiltà di un gentile bianco e nero e la volgare, qualunquistica dispersione artistica di mediocri programmi digitali con poco senso dentro e troppo colore. Il notaio conferma, la descrizione è esatta!
Vi sono date che segnano la storia. Fino ad oggi l’8 settembre rappresentava un giorno buio per questa nostra patria. Ricordi del ‘43, tempi di guerra. Un altro 8 settembre ha segnato il tempo con la scomparsa di un solo uomo che, per molti anni, è stato icona del nuovo corso di una Italia in rinascita, vogliosa di dimenticare quella brutta lotta armata, sedotta dalla magia del video, irrimediabilmente stregata dalla nuova e infinita avventura televisiva. Michelangelo Bongiorno, giovane, ma già veterano di una vita temeraria e incredibile, siciliano newyorkese, cittadino di Torino, bucava il video agli albori della televisione e ha continuato farlo fino a ieri, camuffato da Dante e da postino, da barbone e da professore, riuscendo sempre a strappare un sorriso in modo abile, semplice e virtuoso. Confortante e lieto, il volto quasi sempre gaio, ha sempre rinnovato le basi per la nuova era della comunicazione, arguto precursore, galantuomo e insuperato primo attore, professionista e perfezionista. Rievocare la sua carriera, i festival, le magistrali e argute gaffe, le indimenticabili vallette, i grandi amici dello spettacolo e quant’altro ancora, in questo luogo e adesso, mi pare un banale elenco di tante cose ben fatte dal miglior esempio di conduzione che la nostra televisione possa ricordare. Una maniera di fare che ci manca già, difficile da immaginare ormai riposta per sempre in un pur romantico, dignitoso cimitero che si affaccia sulle rive del lago.
Toccato anch’io più di quanto potessi immaginare, ora non posso che aggregarmi al coro del comune dispiacere. Per me, sofferente “torinista”, il grande Mike aveva l’unico difetto di essere un convinto tifoso juventino. Per un caso della vita, tempo fa mi capitò di incontrarlo. Ero giovane e stavo scendendo zigzagando lungo le piste di sci del Sestriere. A quel tempo, proferire “sempre più in alto!” era quasi un tormentone popolare. Mi superò con destrezza, accarezzava la neve con un gesto agile e perfetto. Ci si fermò nei pressi di un rifugio che mi appare in un lontano ricordo. Mentre si inerpicava su una scala ghiacciata che portava al solarium, scivolò e cadde in modo innocuo. Insinuò qualcosa, sempre e comunque con un fare signorile. Ero dietro di lui, non potei trattenermi dal dire: “troppo in alto signor Mike!”. E, manco a dirlo, mi rispose: “allegria!”.
Carlo Mariano Sartoris