Eravamo tre amici al bar in quella serata magica del 1982 quando la nazionale di Bearzot conquistò la terza coppa del mondo, mandando a casa la Germania con la coppa del nonno. Eravamo tre amici al bar, gli unici a esultare. Avevamo fatto una pazzia. Eravamo partiti con la mia piccola A112 per andare a vedere la finale in casa del nemico. Scegliemmo un bistrot della Svizzera tedesca, il primo degno di accoglierci dopo un goliardico viaggio. Ore 21,00: televisione accesa, concentrazione, silenzio e una pulizia imbarazzante. Tutto l’arredamento era di legno, lucidato e scolpito: noi, tre giovani italiani in mezzo ad altri venti ignari svizzeri tedeschi, ad ordinare birra e salsicce parlando in francese e tentando di camuffarci, di non farci scoprire …
Sappiamo tutti come andò a finire. Fu il trionfo e la paura. Quell’uomo, il condottiero, l’eroe, lo stratega della battaglia, giocò a carte sull’aereo che portava a casa la coppa e i suoi prodighi gladiatori. Enzo Bearzot giocò a carte con il Presidente, quel Sandro Pertini che come lui non ce ne sono stati più. Erano bei momenti per l’Italia intera, patria orgogliosa di vincere un campionato mondiale, ma non soltanto quello. Era una patria rispettata in casa e all’estero, una terra laboriosa, allegra e tranquilla, orgogliosa di sé. Quanto è cambiato da quel momento ormai quasi remoto! Quanto è cambiato nel nostro stile di vita, quanto è cambiato il nostro calcio! Enzo Bearzot, allenatore dallo sguardo deciso, faccia da pugile e poche parole, con quella vittoria ha lasciato un segno nella storia di questo Paese, ma soprattutto nel ricordo dei suoi “ragazzi” che di lui decantano le doti di uomo straordinario, onesto, caparbio e abile nel suo impegnativo quanto ben fortunato mestiere. Sono le lodi destinati ai vincenti ed è giusto che sia così. A volte è la bravura, altre volte una combinazione di destino e di fortuna: ed ecco che l’impresa si compie, per rimanere impressa negli annali dello sport e nel percorso di una nazione.
A chi come me ha giocato al pallone soltanto in piccoli quadrangolari universitari non è concesso giudicare, ma soltanto apprezzare e ricordare che lo spessore di certi uomini sempre più ci manca. Manca a noi tutti, italiani sempre meno uniti intorno alla bandiera, sempre più divisi anche in materia di squadra nazionale, di nostri prodotti, di retaggi della nostra storia. In questo momento mancano buoni condottieri, manca un Bearzot alla guida di un’intera nazione che non ritrova più se stessa, manca un uomo che sappia selezionare i propri uomini, che li sappia motivare e, con rispetto reciproco, sospingere verso il successo di tutti in quella che è pur sempre una partita da giocare. Una partita che non è mai finita, la nostra storia. Mancano figure che lascino l’indimenticabile impronta delle grandi imprese. Ad una ad una scompaiono, lasciando un vuoto che sa di tradizioni, di pulito, di vero, di responsabilità onorata, di orgoglio e di passione, di univoco stile, di amor patrio ben più coeso. Chi c’era allora sa che oggi un certo sapore di unità nazionale manca sempre più.
Questa non è soltanto una semplice oratoria per onorare la scomparsa un uomo di sport che ha saputo restituire alla gente una gioia infinita. Di coppa del mondo ne è venuta un’altra, bellissima, ma forse meno patriottica, più faziosa, meno passionale e già quasi dimenticata, orfana di quella coesione che solo il calcio sa snidare dal cuore di noi italiani, smemorati e polemici per natura e per sangue. È una similitudine che lascia un segno e un vuoto in questo troppo di tutto che, purtroppo, sta cambiando il nostro modo di vivere e di pensare, sostituendo ogni parte di sé per lasciar posto ad un complicatissimo nulla che perde pezzi e radici di un’Italia che fu.
Di Enzo Bearzot rimangono e rimarranno per sempre onore e gloria sportiva, rimpianto e ricordo dell’uomo e di quell’apoteosi che fu: nessuna polemica. Rimane di lui ciò che conclude e che spegne ogni controversia, rimane quel soggetto che non ammette repliche: il risultato ottenuto con caparbietà e con stile, azioni che non lasciano spazio a critiche. Rimane in me il ricordo di quando, in quel bar che tifava Germania, al terzo centro di “Spillo” Altobelli rischiando grosso mi alzai a gridare: “gooooool!”. Ricordo un tuffo dentro una fontana; e poi quel che successe a Losanna quando un popolo di immigrati in festa, vedendo la macchina targata Torino, la sollevarono in venti quasi fosse un trofeo. Ricordo la voce d’un uomo del sud che mi gridò con l’estasi che solo la vendetta sa suscitare: “quando tornate in Italia dite loro che tutte le volte che verranno a giocare qui dovranno vincere! Per noi, che qui ci trattano peggio delle bestie!”. Fu per me un momento di grande emozione, mi guardai attorno e compresi: c’era una baldoria pazzesca. Non era solo una festa, era molto di più. Un altro gridò: “e adesso facciamo vedere noi a questi svizzeri come si fa a far casino! Qui alle 10 di sera sono tutti a dormire! Suona, suona ancora ‘sto clacson, facciamoci sentire!”. Ed io ancora suonai. Eravamo tre amici in una coppa del mondo targata Torino. Non ho mai più visto una festa simile, intrisa di genuina passione italica, di amore e di nostalgia per la propria terra. L’allenatore aveva contribuito a regalare gioia infinita ad una compagine di onesti lavoratori italici che sudavano oltralpe. Pare poco, ma se ancora lo ricordo fu un insieme di eventi molto più importante di cose successe, andate chissà dove, forse più vitali, dimenticate. Enzo Bearzot stava volando sulle nostre teste. Dubito che di questa gioia svizzera abbia mai avuto notizia, ma io che la ho vissuta oggi la dedico a lui, ringraziandolo per aver fatto del bene anche a quella nostra modesta, corretta, eppure maltrattata gente.
Carlo Mariano Sartoris