Gestualità nel silenzio.

18 Gennaio 2021 - 06:00--Spazi di Riflessione-

Potrei paragonare il lutto a quei vestiti che vanno asciugati d’inverno. Quelli che, appena partoriti da un oblò come da una calda placenta, escono ancora intorpiditi da un sonno certamente agitato e vengono ad interfacciarsi con il freddo improvviso che ghiaccia le ossa rendendole di porcellana bianca e delicata. Ecco sì, un vestito che, appeso sullo scheletro di uno stendino schiavo delle intemperie, non si sa quando si asciugherà e per quanto tempo debba rimanere lì in attesa del totale assorbimento di un timido sole che in questa stagione si nasconde dietro a nuvole rapide e menefreghiste. E ogni tanto quel tessuto lo tocchi, per sentire a che punto è, se è ancora bagnato, umido, per comprendere quanto ci sia ancora da attendere.
È come il cordoglio: tu che soffri rimani nell’intorpidimento di sensazioni poco chiare, inafferrabili, ingiustificabili e sorprendentemente inguaribili. Vivi l’attesa dell’assorbimento del lutto, della perdita, che per quanto ne sai – ad ascoltare gli altri – presto o tardi “passerà, sì: il tempo placa tutte le ferite, anche le più abbondanti emorragie dell’animo”. Ma dove sarebbe scritto, esattamente? Che per quanto il tempo, angelo spietato, possa portarti sulla via della dimenticanza e dei vuoti di memoria più desiderabili, alla fine fa rimanere quel piccolo fuoco fatuo dell’insensatezza, del dolore, della sospensione funambolica. Vi sono lutti che ricordi solo in prossimità degli anniversari, lutti che nel bene o nel male riescono a scavalcare il dolore e finire altrove, in una vetrina di oggetti smarriti e dimenticati della tua memoria, ed altri che invece ti porti dentro o cominci a portarli come un amuleto appeso al collo, legato al dito o al polso. Un lutto è un abito, un vestito che inizi ad indossare con disinvoltura, ma pur sempre stropicciato.
Ci sono giornate che, in realtà, tutto propongono, tutto promettono meno che un confronto leale e sincero con la propria memoria: piccoli gesti, piccoli particolari, una canzone alla radio, un volto distratto per strada, una foto possono squarciare il pensiero spietatamente, tanto da farti sanguinare la vista, tanto da volerti far chiudere gli occhi. Ci sono giorni in cui potresti sciogliere una moneta come fosse burro fuso da quanta rabbia provi per una perdita; ci sono giorni in cui vorresti spremere quegli abiti che tieni per ricordo in un cassetto – sempre il più basso dell’armadio – in faccia per annusare tutto l’odore, il più possibile, o l’anima che ne rimane. Ci sono giorni in cui vorresti parlare della tua giornata, delle cose tue, anche di quelle più anonime e banali, in cui vorresti raccontare attimi e gestualità dei tuoi silenzi che non trovano parole, che non trovano riscontri da chi hai perduto. Ci sono giorni in cui la notte sembra non arrivare mai e altri, invece, in cui pare non trovare fine.
Il lutto è anche questo: un divoratore del tuo tempo, del tuo spazio, una scossa che parte dalla punta dei capelli e arriva alle dita dei piedi. Una scossa che non vuole saperne di uscire dal tuo corpo, ma che rimane lì, ben salda, abbarbicata come una sanguisuga insaziabile e perversa, e che si ripresenta ogni tanto come un terremoto dell’anima. In fondo, è proprio vero: siamo tutti piccoli universi, piccole terre che hanno bisogno di assestamento. E quell’equilibrio presto o tardi arriverà.

Beatrice Roncato Villa

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Potrei paragonare il lutto a quei vestiti che vanno asciugati d’inverno. Quelli che, appena partoriti da un oblò come da una calda placenta, escono ancora intorpiditi da un sonno certamente agitato e vengono ad interfacciarsi con il freddo improvviso che ghiaccia le ossa rendendole di porcellana bianca e delicata. Ecco sì, un vestito che, appeso sullo scheletro di uno stendino schiavo delle intemperie, non si sa quando si asciugherà e per quanto tempo debba rimanere lì in attesa del totale assorbimento di un timido sole che in questa stagione si nasconde dietro a nuvole rapide e menefreghiste. E ogni tanto quel tessuto lo tocchi, per sentire a che punto è, se è ancora bagnato, umido, per comprendere quanto ci sia ancora da attendere.
È come il cordoglio: tu che soffri rimani nell’intorpidimento di sensazioni poco chiare, inafferrabili, ingiustificabili e sorprendentemente inguaribili. Vivi l’attesa dell’assorbimento del lutto, della perdita, che per quanto ne sai – ad ascoltare gli altri – presto o tardi “passerà, sì: il tempo placa tutte le ferite, anche le più abbondanti emorragie dell’animo”. Ma dove sarebbe scritto, esattamente? Che per quanto il tempo, angelo spietato, possa portarti sulla via della dimenticanza e dei vuoti di memoria più desiderabili, alla fine fa rimanere quel piccolo fuoco fatuo dell’insensatezza, del dolore, della sospensione funambolica. Vi sono lutti che ricordi solo in prossimità degli anniversari, lutti che nel bene o nel male riescono a scavalcare il dolore e finire altrove, in una vetrina di oggetti smarriti e dimenticati della tua memoria, ed altri che invece ti porti dentro o cominci a portarli come un amuleto appeso al collo, legato al dito o al polso. Un lutto è un abito, un vestito che inizi ad indossare con disinvoltura, ma pur sempre stropicciato.
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Il lutto è anche questo: un divoratore del tuo tempo, del tuo spazio, una scossa che parte dalla punta dei capelli e arriva alle dita dei piedi. Una scossa che non vuole saperne di uscire dal tuo corpo, ma che rimane lì, ben salda, abbarbicata come una sanguisuga insaziabile e perversa, e che si ripresenta ogni tanto come un terremoto dell’anima. In fondo, è proprio vero: siamo tutti piccoli universi, piccole terre che hanno bisogno di assestamento. E quell’equilibrio presto o tardi arriverà.

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