fbpx

“La morte non sia trattata come scartoffia”.

Siamo una famiglia calabrese come tante, viviamo a Gioia Tauro in provincia di Reggio Calabria e siamo qui, oggi, per raccontare l’ennesima ingiustizia che stiamo vivendo. Sentiamo di dover porre all’attenzione dei cittadini calabresi e non, ma soprattutto alle istituzioni, questa spiacevole esperienza che ci è capitata e che ha come protagonisti un detenuto in regime di carcerazione preventiva e la morte di una sorella. Questa nostra lettera, scritta con il cuore in mano, non vuole rivolgere accuse né tantomeno screditare il lavoro svolto da chi si adopera ogni giorno per far trionfare la giustizia, ma solamente diffondere un messaggio pacifico e legittimo di chi sente violato un proprio diritto, garantito con forza dalla nostra Costituzione e dalla legislazione Europea. L’articolo 2 della Costituzione, infatti, tutela i diritti inviolabili dell’uomo, preesistenti ad ogni legge scritta, che riguardano la sfera personale, nonché quella sociale, e tra i quali vi è certamente la possibilità di dare l’estremo saluto ad una sorella prima della sua tumulazione.
Siamo sicuri di non essere stati né i primi e né saremo, probabilmente, gli ultimi a subire questo tipo di ingiustizia ed è proprio questo che ci ha spinto a scrivere apertamente a chi ricopre cariche politiche e giuridiche di rilievo, affinché la coscienza possa essere risvegliata, sempre nel rispetto delle norme, in modo umano e nella massima considerazione delle leggi oggi vigenti. Nei fatti, a un marito e un padre di famiglia, Enzo Bagalà, detenuto nella Casa Circondariale di Palmi in regime di carcerazione preventiva è morta la sorella giorno 15 novembre. Noi familiari, con l’ausilio dei nostri legali, abbiamo presentato il certificato di morte e prodotto l’istanza in Cancelleria a Reggio Calabria la mattina stessa del giorno del decesso, fermamente convinti del fatto che a un detenuto non potesse essere negato il diritto di ‘salutare’ una sorella morta. Con il passare delle ore, e poi dei giorni, a lutto e funerale concluso, ci siamo resi conto che un diritto inviolabile era stato negato e che il nostro familiare non era stato autorizzato, vuoi per tempo o per lungaggini burocratiche, a salutare per l’ultima volta, l’amata sorella.
Possiamo concepire tutto: i tempi lunghissimi della giustizia, le presunzioni di colpevolezza, le restrizioni a cui si debba essere sottoposti quando la Legge ritiene che si è sbagliato, ma non possiamo comprendere come possa essere stato negato a un individuo il diritto a un’umana e necessaria partecipazione al dolore per la perdita di una persona amata. È appena il caso di ricordare a quanti leggono che, secondo gli antropologi, la civiltà è iniziata quando l’uomo primitivo ha cominciato a dare sepoltura ai propri morti. Ciò serve a comprendere quanto ancestrale e profonda sia questa esigenza nell’essere umano e quanto grave sia stato non concedere l’autorizzazione. Altra cosa grave è il senso di rassegnazione, di frustrazione e di impotenza di chiunque viva queste situazioni. Ci si nasconde dietro alle solite frasi di circostanza come ad esempio: “tanto li porteranno al cimitero, se verranno autorizzati”. Oppure: “da soli non possiamo fare nulla”. Ed è proprio qui che nasce la sconfitta.
A Enzo è stata concessa, due settimane dopo la morte della sorella, la possibilità di pregare per circa mezz’ora sulla sua tomba. Ma questo non può e non deve bastare. Ci rivolgiamo a chi di competenza affinché la morte di qualcuno (e le conseguenze che ne seguono) non sia trattata come ordinaria scartoffia all’interno delle cancellerie, delle procure, dei tribunali e negli istituti penitenziari, ma sia presa in seria considerazione, in modo tempestivo, immedesimandosi nel cuore e nella mente di una persona detenuta che, mentre già vive il trauma del carcere preventivo, improvvisamente riceve la terribile notizia della perdita di un familiare. Cerchiamo di giustificare tutto: il troppo lavoro, la tantissima burocrazia, le problematiche degli istituti penitenziari italiani, la carenza del personale di polizia penitenziaria e il sovraffollamento nelle carceri. Ma alle volte, però, basterebbe solamente un poco più di attenzione e di umanità da parte di tutti. Perché non c’è tempo per morire. Non c’è tempo per un’istanza. Non c’è tempo per sentirsi male e non c’è tempo per salutare il proprio familiare dopo la morte. Concludiamo sperando che questa lettera possa arrivare alla coscienza di chi ha gli strumenti per garantire il diritto all’estremo saluto.

Condividi
Indietro