Non sono un appassionato di lirica, ma ho sempre prestato orecchio con piacere a questo genere musicale in tutti quei momenti in cui l’animo e la mente avvertono la necessità di abbandonare il blues e di lasciarsi trasportare lontano e altrove da un qualcosa di diverso, più insigne e più sostanzioso. Musica lirica, icona di un tempo che fu, palcoscenico per grandi manipolatori di voci baciate da Dio e di volti attori, dipinti gioiosi e sofferenti, per storie cantate in altri tempi e giunte fino a noi intatte, importanti. Dell’opera lirica mi ha sempre affascinato la rivisitazione di un’epoca passata piuttosto che le prestazioni vocali o il potente do di petto di “All’alba vincerò”. Del bel canto ho ammirato il saper giungere fino ai nostri giorni mantenendo intatti spartito, racconto, antiche trame, mitici personaggi, struggenti sentimenti: la variegata miscela di un complesso contenuto artistico capace di adeguarsi al nuovo pubblico di nuovi tempi. La scomparsa di Luciano Pavarotti ha lasciato un grande vuoto fra la gente comune e fra i protagonisti dello spettacolo. Si è spento un uomo che, della lunga avventura dell’opera lirica, ha saputo onorare ogni sfumatura con una voce unica, squillante, cristallina. Molto si è scritto di lui e non vorrei ripetermi, soffermandomi sulle sue prestazioni memorabili al Metropolitan, alla Scala, nei teatri più importanti del mondo, sulle sue storie sentimentali e sul valore del suo immenso patrimonio già bottino di giornalistici pettegolezzi.
Il maestro Pavarotti, maestro di canto e di vita, mi manca. Mi manca il suo geniale intuito nel sapersi mescolare a musicisti di tutto il mondo, mi manca vederlo duettare con Zucchero, con Bono e con Sting, mi manca quel qualcosa di inatteso che sempre covava nei suoi desideri: artistici programmi ispirati da un legittimo senso di protagonismo, ma che hanno contribuito a valorizzare il canto e a renderlo più accessibile. Continuo a domandarmi se il mescolare la musica lirica a quella leggera sia stato amore per l’arte canora, una creativa illuminazione, oppure un abile trucco per far soldi, proponendosi a un pubblico più recettivo e più ampio. È una curiosità tutta mia: non è certo un male arricchirsi cantando, anzi è una grande intuizione che ci ha lasciato in eredità un Pavarotti multicolore, poliedrico e polivalente che ha saputo mettere a disposizione dell’esperimento e della novità le proprie qualità canore regalandoci una serie di memorabili eventi che hanno fatto storia. Luciano Pavarotti mi manca. Non tanto come tenore: non avrebbe potuto produrre più di quanto ci ha dato e potrò riascoltare e rivedere ciò che ha saputo fare ogni volta che vorrò. Mi manca come mi mancano tanti piccoli pezzi pregiati di una Italia che fu e che si è andata via via spegnendo. Luciano Pavarotti manca a me e a una Patria sempre più piccola e riservata, una Italia che sopravvive nei ricordi, una Italia provinciale orgogliosa e sana, laboriosa, giocosa e produttiva che, pur più modesta del grande tenore, in egual modo è ancora vivace e presente.
Dell’uomo, del maestro Luciano Pavarotti ricordo una intervista in cui gli veniva chiesto come potesse conciliare l’essere un giorno a stringere la mano di Bill Clinton e il giorno dopo nella sua Modena a giocare a briscola con gli amici. È in quel frangente che mi ha stupito: “Clinton oggi è un Presidente, domani non lo sarà e forse non lo vedrò mai più. I miei amici lo sono da sempre e l’amicizia è la cosa più importante: quando giochiamo a briscola ritorniamo giovani e ci comportiamo come se nulla fosse mai cambiato“. E poi sulle donne: “Ho avuto la fortuna di essere cresciuto tra le donne di una famiglia unita; dovrebbero essere sempre loro a decidere, ma quando gioco a briscola con gli amici non stanno bene intorno, frenerebbero quelle espressioni, quel modo di scherzare e quelle battute che fanno ridere gli uomini mentre giocano a carte”. E ancora sull’argomento, il grande Luciano mi ha strappato un sorriso quando bonariamente ha risposto all’abile cronista: “Siamo mondi distinti, due modi differenti di vivere la vita; io lascio molto libera mia moglie: mi vede andare a fare shopping con le sue amiche? Abbiamo modi diversi per divertirci: ha mai visto delle donne giocare a briscola al bar?“.
Aveva il volto gentile, calmo e sapiente, ma aveva anche il fare semplice e concreto dell’uomo buono di provincia, consapevole della propria fortuna, grato alla vita, alla famiglia, al padre, figura sempre presente e suo primo maestro. Stuzzicato sulla differenza di età rispetto alla sua nuova e giovane compagna, si era mostrato concreto, ottimista, fatalista e poco timoroso del tramonto e della morte. Modi di fare amabili, un poco scanzonati, tipici di gente dall’animo emiliano, spirito della grande pianura, fucina di validi talenti, custode di antiche tradizioni, miniera di lasagne e di tortellini, di donne e di motociclette, di mitiche Ferrari. Luciano Pavarotti manca all’Italia intera, l’Italia oggi maltrattata, asfaltata, svenduta, bruciata. L’Italia con sempre meno storia di cui potersi glorificare e con sempre più mediocrità e mafia ad identificarla. L’Italia che fu garibaldina, terra natale di Verdi, di Puccini, di Rossini, di Bellini, di Mascagni. L’Italia che fu rinascimentale patria del genio insuperabile di magnifici artisti e provincia natia di una civiltà romana che dettò le regole del vivere che ancora oggi governano parte del mondo; l’Italia di Caruso e di Distefano, ma anche di Marconi, di Meucci, di Fermi. L’Italia di poeti e di navigatori, di nomi impressi sulle vie di tutto il mondo.
L’Italia oggi lottizzata, svenduta, cartolina di un tempo che fu, con pochi nomi da esportare e con pochi testimoni, ormai, di un paese litigioso, indifeso, conquistato, decadente: fenomeni che non possiamo più ignorare. Tutto il pianeta ha pianto il grande Luciano, l’italiano più noto al mondo, nome conosciuto e rispettato, probabilmente l’ultimo uomo d’arte e di cultura del quale andare fieri in questo Paese che ha ceduto nel barattare antichi valori. Grazie grande tenore, geniale artista, uomo generoso, buongustaio della vita, robusto mangiatore; il tingersi i capelli era un peccato veniale. In questo momento, se chiudo gli occhi, immagino la tua voce lassù, ad incantare gli angeli.
Pavarotti è stato un personaggio fantastico che ha consegnato se stesso alla storia del mondo; ha vissuto in modo eccezionale, ben consapevole della propria fortuna e, ironizzando su questa sua vita bellissima, in modo egualmente eccezionale ha saputo affrontare la morte, con ironico coraggio; morte venuta a reclamarlo prima di quando egli avrebbe desiderato e salutata con un “per pareggiare i conti con quanto di meraviglioso la vita mi ha dato“. Morire non può certo essere piacevole, ma quando accade a una persona consapevole di quanto il proprio nome, il proprio tempo e il proprio volto resteranno per sempre in eredità al mondo, allora mi sento di azzardare che il prezzo possa apparire molto più leggero. Il palcoscenico è tutto per lui, per una volta senza falsità, polemiche o ampollosità, ma con rispetto, gloria e sincero rammarico, giusto tributo all’uomo, in ogni lingua di ogni paese. Dispiace che rimangano ormai pochi volti a rappresentare la storia di una Italia sempre più sbiadita. Quello del grande Maestro continuerà a cantare ancora, in attesa che una nuova voce possa dare continuità a una tradizione tutta nostrana e che un altro Pavarotti venga presto ad incantare le platee, le gallerie e i loggioni di ogni parte del mondo. Perché le più famose arie cantate nella nostra bella lingua italiana siano degnamente rappresentate e perché Madame Butterfly possa continuare a morire, ma non invano.
Carlo Mariano Sartoris