Un tempo, in Val Gardena, si annunciava la morte di un compaesano con il suono delle campane a morto (zíntlin), invitando tutti a pregare per l’anima del defunto (suné l’angunìa).
Quando moriva un adulto, si fermavano le lancette dell’orologio fino a quando il corpo non veniva portato fuori dalla casa, dove era vietato lavorare.
Il prete, accompagnato da un chierichetto, andava a trovare il morente.
Se incontravano qualcuno lungo il tragitto, il chierichetto faceva suonare un campanello.
Le persone, allora, si toglievano il cappello, si inginocchiavano e si facevano il segno della croce (Sunè òra l preve).
Il defunto, lavato e vestito, veniva esposto nella stube (Sciché sú n mort).
I familiari offrivano pane e sale (caritá dl sel) a chiunque partecipasse al lutto.
Si vegliava il defunto per una notte, mentre vicini e conoscenti pregavano per due notti accanto alla bara.
In Val Gardena, tutti bevevano un sorso di grappa dallo stesso bicchiere.
La morte di un bambino, invece, era considerata una festa in Val Gardena, Livinallongo e Cortina.
La purezza del bambino gli garantiva l’accesso al cielo, e si credeva che i bambini fossero mediatori con il soprannaturale.
La sera prima della sepoltura, si organizzava un banchetto per tutto il vicinato, con balli e canti.
Dopo il funerale, si preparava un banchetto per i parenti e per chi aveva partecipato alla cerimonia venendo da lontano.
Per ricordare il defunto, si celebravano messe in momenti specifici: il settimo e il trentesimo giorno dopo la morte (L setimo e l trentejimo), e alla fine dell’anno (l’anuel).
I gardenesi praticavano anche la “fratellanza di messa”.
Due amici o amiche si legavano spiritualmente e stabilivano che il sopravvissuto avrebbe fatto celebrare una messa per l’altro.