Ci sono dei segnali di speranza, così li chiama don Enrico, parroco di Santa Marcellina e San Giuseppe alla Certosa, la facciata di cemento armato e l’ulivo piantato in giardino, è una chiesa di mezza periferia ed è chiusa. Don Enrico è praticamente disoccupato e perciò si sente come “un leone in gabbia”, parole sue precise. «Noi cattolici siamo una comunità, ma di questi tempi è difficile metterla in pratica, la comunità», per evitare le possibilità di contagio non si celebrano funerali, matrimoni, cresime e prime comunioni, la Chiesa si è fermata, i riti sono sospesi e i credenti vivono anche di questo, di riti, lacrime, abbracci, carezze. I non credenti, pure.
Eppure, questo prete di 52 anni, seduto su una sedia di plastica rossa in un cortile vuoto, lui vede una lucina. In molti condomini di queste parti, e certo anche nel resto di Milano, «vedo che i più giovani chiedono agli anziani se hanno bisogno di qualcosa. La spesa, ad esempio». Tutto quello che ci sta succedendo, e che succede così velocemente, poi, «ci obbliga a fermarci, ma forse ha risvegliato la parte migliore di noi, anche in chi ci sembra più distratto, come i giovani». I ragazzi, sembrano con la testa tra le nuvole o superficiali o scioperati, chiuse le scuole e le università e in via di chiusura tutto il resto, ma sono capaci di suonare un campanello e chiedere la lista della spesa, che poi posano sullo zerbino e ciao.