La vita di ogni essere umano è scandita dalla continua interazione con l’ambiente che lo circonda, che a seguito di quest’interazione non rimane mai uguale a sé stesso: se ne deduce che il traguardo di un “impatto ambientale zero” è una tensione ideale da inseguire per ogni attività umana, senza per questo dimenticarsi di fare i conti con la realtà. Non a caso una delle quattro leggi fondamentali dell’ecologia avanzate da Barry Commoner è che non esistono pasti gratis. Vale la pena notare che anche l’estrema conseguenza di ogni vita umana, la morte, non si esime dall’impartirci questa lezione.
L’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (Arpat) ha recentemente dedicato un approfondimento molto concreto al tema, affrontando l’impatto ambientale dei forni crematori. Si dirà che al forno crematorio si potrebbe sostituire la più tradizionale inumazione del cadavere, ma in questo caso l’impatto ambientale dell’operazione potrebbe riproporsi in altri termini (ad esempio il consumo di suolo adibito a cimitero), e torneremmo alle leggi fondamentali dell’ecologia. Vale dunque la pena approfondire il caso specifico dei forni crematori.
Come nella migliore delle tradizioni, il caso italiano vuole che la Legge 130/2001 “Disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle ceneri” prevedesse l’emanazione di uno specifico provvedimento interministeriale in materia, che dopo 17 anni risulta però non ancora pervenuto. Il risultato è che «ad oggi in Italia non esiste una norma unitaria che disciplini l’installazione degli impianti di cremazione e le loro conseguenti emissioni; ogni Regione o Provincia stabilisce quindi dei limiti specifici in relazione alla localizzazione dell’impianto ed alla tecnologia adottata».
Le Regioni elaborano inoltre “Piani regionali di coordinamento” per mettere a sistema le esigenze del territorio in termini di forni crematori (attualmente sono 9 i forni crematori attivi in Toscana, e 5 i forni adibiti per la cremazione delle carcasse di animali non umani), mentre la gestione dei singoli impianti «spetta ai Comuni, che ne approvano i progetti di costruzione e vigilano sulla loro conduzione». Anche perché, come già accennato, si tratta di un’attività – come tutte – lontana dallo slogan “impatto zero”.