È la sera di lunedì 6 luglio 1992, e il conto alla rovescia è già partito. Paolo Borsellino sembra sentirlo, quel tic-tac che diventa sempre più forte, mentre a Palermo i sussurri diventano grida: è lui il prossimo, lui la vittima designata, lui il morto che cammina. Tredici giorni dopo questa fotografia, scattata nella villetta del giudice a Villagrazia di Carini, a pochi chilometri dalla città, via D’Amelio sarà squarciata dal tritolo. Un’immagine scattata durante una serata con gli amici che è uno dei tentativi residui di normalità, di quella normalità che Borsellino si è lasciato alle spalle 44 giorni prima, quando Falcone – suo amico e scudo – è saltato in aria a Capaci. È l’ultima sua fotografia, quella che il figlio Manfredi mostra con gli occhi negli occhi del padre. Dopo, di Borsellino, ci sarebbero state soltanto le immagini di un lenzuolo a coprire il cadavere nel cratere dell’esplosione. Un’immagine che racconta come ormai, a dispetto dell’abbozzo di sorriso della moglie seduta all’altro capo del dondolo (in centro c’è un’amica di famiglia), il giudice non riesca più ad avere un momento di serenità. Volto scavato, sigaretta in bocca, sguardo sofferto, distrattamente rivolto all’obiettivo. Sono i giorni in cui il magistrato scrive febbrilmente sull’agenda rossa poi scomparsa. Sono i giorni in cui combatte una battaglia durissima con il suo procuratore capo, Pietro Giammanco, che lo tiene fuori dalle indagini più importanti e dalla gestione dei nuovi pentiti. Sono i giorni in cui, secondo quello che sta emergendo dalla nuova inchiesta sulla strage partita dopo la conclusione del processo depistato, il giudice viene a conoscenza della trattativa fra Stato e mafia per mettere fine alla stagione delle bombe. Un patto che gli ripugna.
fonte: www.lastampa.it