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10 gennaio 2016. La scomparsa di David Bowie.

Polvere siamo e polvere ritorneremo: lo sappiamo, ma c’è polvere e polvere. Immagino che le stelle del firmamento siano state un po’ tristi e un po’ liete nel veder tornare il quinto elemento dell’androide che ci diedero in prestito. Fenomeno dai mille volti, da Ziggy Stardust, Halloween Jack, Nathan Adler, Alladin Sane sino al Duca Bianco, ultima icona di David Bowie, il trasformista del rock, all’anagrafe terrestre registrato come David Robert Jones, londinese, ma le cui origini galattiche sono tuttora incerte. L’alieno, o forse uomo solamente genio, si è comunque spento nel suo corpo mortale il 10 gennaio 2016 lasciando dietro sé il mito e un infinito materiale degno di ogni saga artistica e musicale.
Bowie ha smorzato la propria stella in un alone di mistero, d’un colpo, ammutolendo il mondo della musica e dello spettacolo, scaraventando il popolo dei fan in un senso di frustrazione per la scomparsa di un gigante, di un genio irriverente, di un fenomeno senza limiti che ha imbrigliato la forza della musica legandola a doppio nodo con il fascino dell’ambiguità, con la seduzione di interpretazioni segnate da una sessualità interplanetaria, universale. Astuzia dell’immagine applicata al talento, alla lungimiranza, a quella marcia in più che forse davvero è pura energia cosmica convogliata in “Life of Mars?”, “Heroes, Starman”, “Space Oddity”, brani dalle sonorità interstellari, forse registrati nello spazio infinito? Il risultato ci ha consegnato un artista geniale e innovatore, un Andy Warhol del pop, un leader che ha collaborato con i più grandi musicisti internazionali, un precursore che ha saputo interpretare tutti i tempi musicali saltando dal folk acustico al blues, alla musica elettronica, personificando ogni struttura dell’universo del sound fino al rock duro, lasciando un’eredità di pezzi indimenticabili e altrettanti concerti. Tutto questo sarebbe bastato a qualsiasi altro artista. David Bowie ha lasciato molto di più ai propri follower, e altrettanto ha rubato emotivamente. Volto truccato, capelli sparati, storie di splendide donne e ambigui uomini, trasgressione, carica erotica e doppiezza sfacciata ben servita da una bellezza universale, con la sua immagine ipnotica e sovrana ha segnato anche la strada di un costume trasgressivo che oggi conta un cospicuo numero di seguaci altrettanto ambigui, ma dichiaratamente allo scoperto.
La carriera dell’artista calato dall’iperspazio, iniziata in Inghilterra negli anni ’60, ha attraversato tutte le stagioni della musica, ma non solo. Tra scandali, droga, passione per l’occulto e geniali intuizioni, la creatività e la perenne ricerca di ogni tipo di espressione corporea hanno trasferito la sua teatralità verso il quadrante “fantasy” del grande schermo dove lo si ritrova in ruoli da protagonista e di “also starring” per lo più legati al personaggio di “uomo sceso dallo spazio”. Il ricordo della sua lunga carriera è certamente segnato in ognuno di noi da un brano di musica o da una reminiscenza in 70 mm accompagnata dal suono stereofonico e fissata per sempre dalla magia della settima arte. Ripercorrere su queste pagine la carriera di un personaggio così vasto non è possibile, né assennato. Non è il luogo e neppure il momento, quanto piuttosto l’occasione per innalzare un coro di ringraziamenti e una smorfia di rimpianto: il Duca Bianco aveva ancora tanto da dare, ma a sua esigente maestà il tumore al pancreas, che se lo è portato via, anche un nobile genio alieno si deve inchinare. David lo ha fatto come tutti, a malincuore, ma con uno stile mozartiano destinato a rimanere nella storia dei più grandi artisti venuti a questo mondo.
L’ultima, immensa prova della geniale appartenenza ad una razza superiore l’ha lasciata nel suo lucido, struggente, meditato epitaffio musicale, sapientemente registrato per scandire come un metronomo l’addio al pianeta terra e ai suoi abitanti. “Blackstar”, l’album uscito in contemporanea con il suo sessantanovesimo compleanno e a due giorni dall’estremo soffio vitale, mette i brividi se analizzato a “cose fatte”. Si tratta di un vero e proprio “requiem” dedicato ai fan. Già il titolo, nel suo oscurare la stella, appare molto più chiaro, ma il signorile saluto alla vita è presente in bibliche e ultraterrene metafore, in nobili versi e nell’iconografia che soltanto la visione di “Lazarus” e l’ascolto dei brani potranno renderci nella loro interezza. Non resta che rendere onore a questa triste, magnifica storia, indagando più a fondo: v’è sempre molto da imparare dalla genialità che si appresta al terminale, misterioso, ultimo viaggio. È bene essere preparati, il tempo passa e sebbene vi sia polvere e polvere, tornare polvere di stelle è un privilegio a cui siamo tutti destinati. A diversi anni dalla sua scomparsa, il mito si è tinto di altre leggende. Immaginandolo nell’armonia del creato, nel silenzio dell’infinito, seduto tra i sassi del suo pianeta rosso, chissà se David starà canticchiando “Look up here, I’m in Haven” così come ha predetto nel suo enigmatico, ultimo saluto.

 Carlo Mariano Sartoris

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