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19 maggio 2016. Muore Marco Pannella. Il ricordo di Annalisa Chirico.

Avevo vent’anni quando lo incontrai per la prima volta in via di Torre Argentina. Sulle mensole della mia cameretta in Puglia conservavo decine di volumi di e su Marco Pannella. Avevo letto di lui, ora lo incontravo. Ero emozionata, e intimorita perché Marco incuteva un timore reverenziale. Marco era bello ed elegante, una classe innata la sua. Con pochi altri amici avevamo deciso di mettere su il movimento radicale nelle università, ispirandoci alle battaglie di Luca Coscioni, leader radicale morto di sclerosi laterale amiotrofica e strenuo paladino della libertà della ricerca scientifica. Il nostro riferimento era Marco Cappato, all’epoca segretario dell’associazione intitolata a Luca. E poi c’era lui, il gigante col sigaro in bocca. E le bretelle in vista. Su quel corpo magro, ossuto, e sexy.
Nella sua stanza ufficio, l’ultima in fondo al corridoio a destra, a qualunque ora sentivi la voce di Radio radicale, l’università popolare. Io ero giovane e fresca, una studentessa secchiona e ribelle, un mix che incuteva in lui curiosità e diffidenza. “I giovani radicali non sono mai esistiti, noi siamo contro le giovanili. Volete fare politica? Le porte del partito sono aperte. Versi 200 euro e sei iscritto con gli stessi diritti di ogni altro“, quante volte me l’ha spiegato Marco, mentre io insistevo, scioccamente, su quanto fosse importante abbassare la quota, svecchiare la classe dirigente, puntare sui giovani come me e diversi altri. Ero già membro del comitato nazionale, avevo l’onore e l’onere di intervenire alle assemblee in cui Marco e Emma distillavano pillole di saggezza liberale, parlavano delle comunali a Roma così come degli equilibri geopolitici in Medioriente e nel nord Africa, e poi si tornava a parlare di testamento biologico prima di offrire una incursione sulle vicende più recenti che avevano coinvolto la minoranza uigura in Cina. Io ascoltavo avidamente, prendevo appunti, e anche rimbrotti.
Il caso Capezzone aveva lasciato il segno. All’epoca nacquero gli Studenti Coscioni, un movimento libertario e goliardico che raccoglieva 5mila firme contro l’obbligo di ricetta medica per la pillola contraccettiva del giorno dopo, che manifestava davanti alle ambasciate dei paesi arabi e lanciava appelli contro le baronie universitarie. Abbiamo vissuto, e ci siamo divertiti. Marco osservava. Scrutava. Eravamo riusciti a coinvolgere ragazzi poco più che ventenni che, con poche decine di euro, si erano iscritti a una cellula della benedetta galassia radicale, e animavano la sede del partito, facevano aperitivi e banchetti di raccolta firme al Muccassassina. Era certo una tempesta in un posto dove da tempo era rimasto un circolo ristretto di saggi attempati.
E poi c’è Bruxelles e l’esperienza di uno stage al Parlamento europeo nel gruppo federalista radicale, con i “due marchi”, Pannella e Cappato. Marco, gigante anziano dal codino bianco, era riverito e rispettato da tutti, si aggirava per gli uffici del PE come fosse casa sua, parlava francese madrelingua e salutava l’ex ministro Rocard e si divertiva a prendermi in giro quando mi vedeva traballante su un paio di tacchi in effetti fuori dalla mia portata. “Ma la smetti di mettere i tacchi?”, mi diceva avvicinandosi con il suo corpaccione, senza sapere che la sua vicinanza fisica per me era batticuore e attrazione. Marco era bello, letteralmente bello. Una sera a Bruxelles, dove si tirava sempre tardi molto tardi (nostalgia), rimasi fuori casa. Avevo scordato le chiavi dentro il mio appartamento, erano le quattro del mattino e non sapevo dove andare. Andai da lui, nella sua dimora affollata di cimeli di viaggio, tracce di luoghi lontani. La ricorderò per sempre quella notte e quel luogo.
Marco diffidava dell’ambizione altrui. E della giovinezza che lui non aveva più. Spesso mi intrufolavo nel suo ufficio, sempre timorosa di essere mandata con garbo a quel paese, e gli chiedevo consigli su come impostare una iniziativa o su come esprimermi in TV; erano le mie prime uscite televisive e lui non amava il fatto che altri compagni del partito andassero in TV, per giunta sconfessando il teorema del regime antiradicale. Lui mi ascoltava, gettava la cenere del sigaro sui fogli che teneva tra le mani, e poi mi faceva segno di sedermi. E cominciava a parlare, e per me quella voce e quegli occhi verdi erano musica. Marco Pannella mi stava istruendo. “Truffaldini, questi partiti truffano i cittadini“, e io appuntavo le frasi che mi parevano più a effetto.
Poi, per congedarmi senza troppe smancerie, s’interrompeva: “Ora torno a leggere. E non dirmi della tessera a 50 euro che ti mando a quel paese, eh“. Ho capito che stavo diventando grande quando ho scritto “Condannati preventivi”, il mio primo libro sui guasti della giustizia italiana. Marco mi dice: “Brava, finalmente ti occupi di cose serie. Basta cazzate“. Era il suo modo gentile per dirmi che fino a quel momento avevo solo rotto le palle. Quando presentammo insieme questo libro alla Camera dei Deputati, una delle sue ultime presenze in quel Parlamento a cui tanto ha dato e che non è riuscito a nominarlo senatore a vita, lui arrivò con un foglio fitto fitto di appunti. Era smagrito, con uno sciopero della fame in corso. Quando gli fu data la parola, partì dalla quarta di copertina. E cominciò a leggere la mia breve bio. C’è il video su Radio radicale, ogni tanto nei momenti blu me lo guardo. Marco leggeva parola per parola, gli studi, il dottorato, le battaglie politiche, e io mi scioglievo. Mi stava dicendo che ero brava e che avevo fatto un sacco di cose.
Non sarei quella che sono se non avessi incontrato un giorno, nella mia vita, per un giorno, un gigante solitario di nome Marco Pannella. Ora c’è solo il vuoto. E l’enorme voglia di sentire quella voce che ti mandava, con garbo, a fanculo.

fonte: finoaprovacontraria.it

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