20 marzo 1979. Muore Mino Pecorelli, il giornalista che svelava i segreti del potere.

20 Marzo 2025 - 00:05--Anniversari-
Mino Pecorelli

Mino Pecorelli, all’anagrafe Carmine Pecorelli, nacque il 14 giugno 1928 a Sessano del Molise.
Dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale con il Corpo polacco e ottenuto una decorazione al valore, si laureò in Giurisprudenza all’Università di Palermo.

Iniziò la carriera come avvocato specializzato in diritto fallimentare, avvicinandosi progressivamente al mondo della politica e della comunicazione.
Fu capo dell’ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo, entrando così nei meccanismi del potere italiano.

La carriera giornalistica

Nel 1968 fondò l’agenzia di stampa Osservatore Politico (OP), trasformandola in una rivista investigativa che si occupava di scandali, retroscena politici e attività occulte nei palazzi del potere.

OP non aveva filtri: pubblicava informazioni riservate su politici, servizi segreti, criminalità organizzata e massoneria deviata.
Tra le sue inchieste più clamorose vi furono quelle sulla corruzione nella Democrazia Cristiana, il caso Lockheed, il crac Sindona e le infiltrazioni della loggia massonica P2.

Fu tra i primi a denunciare la falsità del Comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il sequestro di Aldo Moro e a ipotizzare che Giulio Andreotti fosse coinvolto in attività oscure.

Un giornalista scomodo

Le sue rivelazioni facevano tremare i potenti.
Tra le ipotesi investigative, si dice che avesse raccolto informazioni compromettenti su figure di spicco della politica e della Chiesa.
Si parlò anche di un dossier segreto consegnato a Papa Giovanni Paolo I poco prima della sua misteriosa morte.

La sera del 20 marzo 1979, Mino Pecorelli venne assassinato a Roma con quattro colpi di pistola mentre era nella sua auto in via Orazio.
I proiettili usati erano dello stesso tipo di quelli trovati nell’arsenale della Banda della Magliana.

Indagini e processi

L’omicidio scatenò una lunga serie di indagini.
Nel tempo furono ipotizzati mandanti diversi: Cosa nostra, la P2, esponenti dei servizi segreti e ambienti politici.

Nel 1993 il pentito Tommaso Buscetta indicò Giulio Andreotti come mandante del delitto.
Dopo una prima assoluzione, nel 2002 Andreotti fu condannato a 24 anni di carcere, ma la sentenza venne poi annullata in Cassazione nel 2003.

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Dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale con il Corpo polacco e ottenuto una decorazione al valore, si laureò in Giurisprudenza all’Università di Palermo.

Iniziò la carriera come avvocato specializzato in diritto fallimentare, avvicinandosi progressivamente al mondo della politica e della comunicazione.
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Nel 1968 fondò l’agenzia di stampa Osservatore Politico (OP), trasformandola in una rivista investigativa che si occupava di scandali, retroscena politici e attività occulte nei palazzi del potere.

OP non aveva filtri: pubblicava informazioni riservate su politici, servizi segreti, criminalità organizzata e massoneria deviata.
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Fu tra i primi a denunciare la falsità del Comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il sequestro di Aldo Moro e a ipotizzare che Giulio Andreotti fosse coinvolto in attività oscure.

Un giornalista scomodo

Le sue rivelazioni facevano tremare i potenti.
Tra le ipotesi investigative, si dice che avesse raccolto informazioni compromettenti su figure di spicco della politica e della Chiesa.
Si parlò anche di un dossier segreto consegnato a Papa Giovanni Paolo I poco prima della sua misteriosa morte.

La sera del 20 marzo 1979, Mino Pecorelli venne assassinato a Roma con quattro colpi di pistola mentre era nella sua auto in via Orazio.
I proiettili usati erano dello stesso tipo di quelli trovati nell’arsenale della Banda della Magliana.

Indagini e processi

L’omicidio scatenò una lunga serie di indagini.
Nel tempo furono ipotizzati mandanti diversi: Cosa nostra, la P2, esponenti dei servizi segreti e ambienti politici.

Nel 1993 il pentito Tommaso Buscetta indicò Giulio Andreotti come mandante del delitto.
Dopo una prima assoluzione, nel 2002 Andreotti fu condannato a 24 anni di carcere, ma la sentenza venne poi annullata in Cassazione nel 2003.

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