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22 ottobre 1913. Lo scoppio nella miniera di Dawson e il cimitero degli italiani nella città dei morti.

Spesso ci capita di vedere nei vecchi film western, anche in quelli molto belli che la magia della macchina da presa di John Ford ha reso immortali, vecchie miniere sorrette da improvvisate impalcature di legno nelle quali minatori, ma soprattutto cercatori d’oro, lottavano sognando una vita diversa e meno grama. Erano i tempi della corsa all’oro della fine dell’Ottocento e del sogno americano che portava flotte di immigrati in quelle sperdute lande del nuovo mondo. In quei luoghi si parlavano idiomi diversi anche se la lingua che primeggiava era quella dei primi colonizzatori di origine anglosassone che padroneggiavano non solo per la parlata ma anche e soprattutto per il possesso e lo sfruttamento delle terre.
Così avvenne anche in uno sperduto luogo ai confini tra il Nuovo Messico e il Colorado dove tale John Barkley Dawson vendette le sue terre alla società mineraria Phelps Dodge Mine Company che per meglio sfruttare il territorio alla ricerca di carbone e altri minerali e allo scopo di attirare mano d’opera finanziò la fondazione di un intero paese che, fu chiamato Dawson dal nome del proprietario delle terre, e vi fece costruire case per i minatori, un ospedale, dei negozi, un cinema, una piscina e finanche un campo da golf oltre che i collegamenti ferroviari con diverse città. In pochi anni arrivarono in paese molti minatori da ogni parte del vecchio mondo in maggioranza italiani anche se non mancarono i polacchi, i greci, i portoghesi e i cinesi.
Oggi Dawson è solamente un lontano borgo desolato e disabitato. L’ospedale come pure le case e la piscina sono rovine divorate dal deserto la cui sabbia ha seppellito anche gli accessi alle diverse miniere che per anni avevano ospitato il sudore e il sangue di centinaia di minatori.
Oggi a Dawson c’è soltanto un cimitero che custodisce i poveri resti di 263 minatori di cui 146 parlavano i diversi dialetti italiani e 17 l’antica e modernizzata lingua di Socrate. Duecentosessantatre tombe a perenne ricordo di uno dei più gravi disastri minerari della storia. Il calendario segnava il giorno di mercoledì quel 22 ottobre del 1913 quando la terra tremò nel raggio di oltre 4 km per un’esplosione nella miniera n. 2 di Dawson e per i 263 minatori che l’occupavano non ci fu più niente da fare. Interi nuclei familiari, tra cui ben 11 componenti della famiglia Santi, immigrati dalla lontana Emilia Romagna per inseguire il sogno americano, furono travolti dall’esplosione e i loro poveri resti fanno compagnia alle altre tombe nel cimitero della città dei morti di Dawson.
Qualche anno fa un discendente dei Santi che ha oltre novant’anni e che è nato in America dove vive ha così ricordato quella tragedia e il cimitero di Dawson: “Ho visitato diverse volte il cimitero di Dawson, con quelle croci bianche d’acciaio che sopravvivranno in eterno. Ma è strano vedere nel bel mezzo di una montagna desolata, queste tombe con nomi delle colline modenesi e dediche scritte in italiano. Ogni anno c’è un raduno dei discendenti accanto a questo giardino di tombe, le cui porte sono sempre aperte ai visitatori … Una delle cose peggiori della catastrofe della miniera fu che le vedove dei minatori dovettero riportare i loro bambini in Italia. E quando questi più tardi tornarono negli Stati Uniti da adulti, non sapevano più se erano americani o italiani”.

fonte: agenziacomunica.net 

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